E’ ancora fresca la semifinale di Marco Cecchinato, palermitano doc, al Roland Garros del 2018. Quest’anno, a raccoglierne l’eredità, ci pensa un altro ragazzo di casa nostra. Di Avola per la precisione. Si chiama Salvatore Caruso, quasi 27 anni, e sta realizzando il suo sogno. Dopo una vita di gavetta e sacrifici – nel tennis mantenersi non è facile e Caruso ha chiesto formalmente un impegno ai suoi genitori soltanto dopo il diploma – si affaccia alla seconda settimana di un torneo del Grande Slam. Che nel tennis rappresenta la categoria dei tornei più importanti, quelli che solitamente (quasi sempre) sono appannaggio di grandi campioni come Roger Federer e Rafael Nadal. Partito in sordina, come il Ceck lo scorso anno, Caruso ha superato tre turni del torneo di qualificazione e adesso si è issato ai sedicesimi di finale, grazie alle belle vittorie sullo spagnolo Munar, uno dei “big” della next generation, i giovani più promettenti, e sull’idolo di casa Gilles Simon, n.33 delle classifiche mondiali, acclamato dalla folla per le quasi due ore e mezza di partita che li hanno visti protagonisti sulla terra rossa di Parigi: è finita 6-1, 6-2, 6-4 per Salvo.
Caruso, che ha vinto il suo primo torneo fra i professionisti solo lo scorso anno a Como, battendo in finale il cileno Garin, ha giocato fin qui tre partite “ufficiali” nei tornei maggiori: prima della doppia affermazione di questi giorni a Porte d’Auteuil, si era misurato lo scorso anno a Melbourne, per l’Open d’Australia, dove aveva riportato una sconfitta “incoraggiante”, al quinto set, contro il tunisino Malek Jaziri. Oggi è n.148 del mondo. La vita, però, gli sta regalando adesso le soddisfazioni più belle. Complice una forma invidiabile, che non ha accompagnato gli altri italiani presenti in tabellone (è rimasto solo Fognini, Cecchinato è andato fuori subito), Caruso si è fatto largo tra avversari ostici, arrivando persino a battere l’idolo di casa dopo un match ai limiti della perfezione. Gioca bene Salvatore, è solido, ha buoni fondamentali. Fa molto male con il diritto incrociato, e infilza spesso gli avversari dopo averli chiamati a rete con la palla corta, costringendoli a una corsa affannosa. Ha testa, che nel tennis non è un elemento di richiamo, ma le fondamenta dello stare in campo.
Salvatore ha cominciato a giocare a tennis nemmeno troppo piccolino, a 16 anni, dopo un volantino che lo incentivava a provarci nel circolo sotto casa. Da lì è stata una corsa appassionante e difficile, che toccò la prima vetta nel 2013, quando il suo allenatore lo chiamò dicendogli che Federer – all’epoca n.1 al mondo – aveva bisogno di uno sparring partner per allenarsi al Foro Italico di Roma, dove si giocano gli Internazionali d’Italia. Fu il primo sogno di una carriera che sembrava non voler sbocciare mai. Ma che ora, evidentemente, bussa alle porte del giovanotto siciliano. Che non beve il Nero d’Avola perché troppo “forte”, ma va matto per il latte fatto con le mandorle della sua città: “Come mia mamma non lo fa nessuno”. Ne servirà una bella dose per ricaricare le batterie e affrontare al meglio la prossima battaglia: che si chiama Novak Djokovic.