Direte voi: ma con il terremoto che scuote l’Italia, da Montecitorio a Palazzo Madama, da Palazzo Chigi all’ultima poltrona di sottogoverno, come vi è venuto in mente di puntare gli occhi su Siracusa e sulla commediola paesana di una competizione elettorale che teoricamente non dovrebbe essere diversa di quella di Catania, Ragusa, Trapani o Messina? Domanda legittima, ma un perché esiste. Siracusa, con diciannove liste in gara e sette candidati a sindaco, è l’esempio più lampante e più disarmante di quella disgregazione che ha portato alla rovina i partiti tradizionali. Chiunque provi a sfogliare nomi e volti dei contendenti capirà facilmente che la Seconda Repubblica era già nel suo basso impero. E che l’arrivo di Salvini e Di Maio – che pure non sono né Attila né Vercingetorige, ohibò – era purtroppo nel disordine delle cose.