“Irregular”. E’ il titolo in spagnolo del film, un pamphlet per immagini ambientato in una Bolivia incontaminata e ignota, su cui sta lavorando Fabrizio Catalano, regista, autore teatrale, attore, sceneggiatore, scrittore, traduttore e nipote di Leonardo Sciascia.
Ma è anche uno stato d’animo, “non conforme” o meglio “non conformista”, forse l’unico possibile per chi come Fabrizio Catalano ha avuto accanto un nonno “così speciale e così normale”. Per uno che da bambino ha visto l’esercizio quotidiano e familiare di virtù “normali e speciali” al contempo e, di conseguenza, si ritrova ad essere un adulto “irregular”. Che mal si adatta al contesto attuale, proprio perché “si basa sull’assurdo concetto di profitto illimitato da parte di pochi”, perché considera “chi è normale come un idiota e chi è speciale come il chierichetto che ha accesso all’altare. Col paradosso che nessuno sa chi c’è dentro il tabernacolo. Sovrastrutture a incastro come scatole cinesi? Poteri forti? Chissà. Se ne parli, vieni tacciato di complottismo. Ma la realtà è un enorme complotto. Talvolta senza cervello. Senza strategia. Oggi il mondo è totalmente antisciasciano. Popolato da ignoti commissari che agitano feticci e seminano terrore. Con sorprendente, spropositato successo”.
“Il cavaliere e la morte” è quasi un testamento letterario di Sciascia scritto nell’estate del 1988, l’anno prima di morire, in Friuli dove era in vacanza proprio col nipote maggiore Fabrizio Catalano. In questa “sotie” il Diavolo è diventato superfluo, “talmente stanco da lasciare tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui”.
Il mondo si muove in modo insensato su parametri dissennati in uso tra i potenti. L’informazione è manipolata. Si creano capri espiatori pubblici. Tra il protagonista, un vecchio funzionario di polizia, e un agente dei servizi segreti c’è un celeberrimo scambio di battute. Il primo dice: “Si può sospettare che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini”. E l’altro ribatte: “Di tutti i cittadini in effetti: anche di quelli che, spargendo insicurezza, si credono sicuri”.
“Più attuale di così – afferma Fabrizio Catalano – di un’attualità lancinante e lacerante. Però… però c’è sempre un momento nella storia in cui nell’esercizio del potere ci si arriva a chiedere alla maniera di Maria Antonietta come mai i sudditi domandino il pane e non sanno che esistono le brioche. A quel punto si apre una finestra per il cambiamento. Credo che non sia lontano il momento in cui l’insicurezza si ritorcerà contro chi la sta spargendo. Temo che arriverà in modo violento”.
E poi: “Se mio nonno avesse un erede tra i molti che si sono autocandidati, soprattutto dopo la scomparsa di Bufalino e Consolo, questo dovrebbe urlare per quanto avviene oggi in Italia. Urlare, non denunciare. Poi la caccia all’erede ha sempre qualcosa di insensato. Ciascuno di noi è un coacervo di eredità. Al di là del legame di sangue, anche io sento il dovere di portare avanti idee, battaglie. A modo mio. Magari traducendo autori simbolisti francesi o andando a girare pamphlet visionari in Bolivia sull’universo femminile e un ritorno al matriarcato”.
Leonardo Sciascia per nonno, dunque. A raccontare storie, consigliare libri o film, fare passeggiate in campagna o cucinare prelibate pietanze nella casa di contrada Noce, “buen retiro” familiare in quel di Racalmuto, provincia di Agrigento.
Un nonno che tutti venivano a trovare anche da lontano, amici, letterati, politici. E lui che tutti accoglieva senza affettazione, senza vanità, consapevolmente estraneo alla società dello spettacolo, alla società dell’apparenza che ha soppresso la realtà.
Un nonno glorificato già in vita come “massimo autore civile” d’Italia ma al contempo vituperato e offeso per avere avuto sempre il coraggio delle proprie idee, il coraggio di cercare la giustizia e la verità in un paese senza l’una e senza l’altra.
“Crescere con Leonardo Sciascia significa guardarsi attorno per provare a capire quel che avviene, significa ostinarsi a dire quello che si pensa, cercando di esprimersi nel modo più chiaro possibile per evitare interpretazioni fallaci, ma senza temere eventuali usi distorti”. Fabrizio Catalano ha fatto sua la lezione del nonno a proposito del tritacarne delle polemiche scatenate dall’editoriale pubblicato sul Corriere della Sera nel gennaio 1987.
Già il titolo: “I professionisti dell’antimafia” – non scelto da Sciascia, ovviamente – scoppiò come una bomba nella trincea armata di ipocrisie e unanimismi, eterno rifugio della società civile e politica italiana per sfuggire alla realtà, alle contraddizioni e alle lacerazioni della realtà. In un baleno Sciascia – da primo scrittore, per di più siciliano, ad avere affrontato il tema della mafia in libri come “Il giorno della civetta” o “A ciascuno il suo” – finì alla gogna come “un quaquaraquà” qualunque.
“Qualcuno suggerì di relegarlo ai margini della società”, ricorda Fabrizio Catalano. Pochi lo difesero. Spesso lasciando trapelare una punta di imbarazzo, magari su “l’eccesso di garantismo”. Sciascia replicò secco più volte: “A me non interessa chi strumentalizza le mie opinioni, è dovere di tutti impedire che queste strumentalizzazioni abbiano effetto. In nome dell’antimafia si esercita una specie di terrorismo nei confronti di chi dissente. Lo Stato deve avere la faccia del diritto, non una faccia che finisce col diventare un doppione della mafia, del malaffare”.
Oggi sarebbe molto peggio, assicura lapidario Fabrizio Catalano: “In una società che non riconosce neppure gli intellettuali (parola che non sarebbe piaciuta a mio nonno) Sciascia avrebbe perso il diritto di parola. Vedi Montagnier? Sciascia certamente non avrebbe avuto molti punti di contatto con Montagnier, eppure sarebbe stato trattato esattamente come lui. Non sono un medico e non so se Montagnier avesse ragione o no. Ma so stabilire che non andava deriso”.
E si capisce che non è un problema sanitario. Per Fabrizio Catalano: “L’esperimento della società del controllo è riuscito. La maggior parte della popolazione non solo l’accetta, ma lo auspica. Assistiamo alla occupazione militare del territorio televisivo o della informazione tout court. Solo determinate persone o determinate opinioni appaiono; il resto è da condannare, da deridere”.
Insiste molto sulla sciagura del “politicamente corretto”, Fabrizio Catalano. Ché è un “tradimento alla natura, alla cultura italiana”. Un tradimento a Sciascia, antidoto naturale al ridicolo.
Perché “come nazione l’Italia è nata male. Un paese vigliacco, dall’unità a Mussolini, alla guerra, alla fuga dei re Savoia, all’assassinio di Moro. Un paese colonia. Da sempre. Per questo reagiamo al modo della commedia. Non abbiamo identità e neppure l’orgoglio in linea con l’impero che si ha, per esempio in Spagna, il paese dove attualmente vivo”. Ma la cultura no. “Era il nostro patrimonio ed era tutta politicamente scorretta. Dante con la Divina Commedia, Botticelli che dipingeva sensuale la nascita di Venere in un tempo in cui si dipingevano Madonne, Caravaggio, Galileo, Leonardo. Poi Verdi, Pirandello, Pasolini, Sciascia. Ma anche la cultura bassa. Il western all’italiana che metteva in scena lo stupro del ragazzino “gringo”, biondo e indifeso, da parte dei messicani, banditi e ubriachi. Era giusto? No. Poteva avvenire? Sì. Se lo metto in scena significa che sto raccontando la realtà. Adesso tutto ciò è bloccato a monte. Non lo scriviamo neppure. Siamo tutti condizionati”.
Sotto questa cappa di conformismo e di omogeneità di vedute che richiede nei paesi “sviluppati” vite tutte uguali, tutte sottoposte alle stesse regole e agli stessi schemi, Fabrizio Catalano ha trovato una dimensione umana possibile in Bolivia, “nel nuovo mondo ancorato al passato, in cui realismo magico e dimensione spirituale dell’esistenza sono accadimenti quotidiani”.
Mentre l’Occidente vive la sua agonia sotto il peso di un capitalismo sfrenato o di un socialismo occhiuto, entrambi figli di un modello patriarcale già fallito, lui assieme alla coautrice boliviana Fátima Lazarte persegue il sogno “irregular” di una Venere che nasce in un deserto di sale e non dal mare come la divinità greca. Una Venere dalla pelle olivastra, “una mujer revolucionaria”.