La formazione culturale e la lunga attività politica mi hanno reso estraneo e lontano dal “renzismo” nelle forme e nei contenuti che è andato assumendo negli anni più recenti. Ho vissuto in una comunità che, tra tanti difetti, aveva forte il senso dell’appartenenza e della collegialità. Ho ascoltato più volte le analisi articolate e spesso molto lunghe di Moro, di Berlinguer e degli altri protagonisti della storia repubblicana. Non mi è riuscito, perciò, di sostituire a quei discorsi, a quegli scavi nella realtà del Paese e nei problemi che venivano affrontati, i tweet, i messaggi semplificati. Tuttavia ho votato Renzi quando diventò segretario del Partito democratico, malgrado, ricordo, durante quella campagna per le primarie, andato ad ascoltarlo in un teatro palermitano, pochi minuti dopo l’inizio del suo intervento, dissi a mia moglie, che era con me, di andare via perché, se fossi rimasto lì ancora, avrei cambiato opinione.
Speravo che Renzi potesse, per la sua età, per i labili vincoli ideologici che mi sembravano un elemento positivo ma si rivelarono il contrario, riuscire meglio di altri a fondere le diverse culture che avevano dato vita al Partito democratico. Egli, per quanto arrivato mentre scorrevano i titoli di coda, pensavo avesse imparato dalla Democrazia cristiana alcune buone regole, a cominciare dalla capacità di sapiente attesa, perché dopo ogni sconfitta si possano creare le condizioni per una partita di ritorno, dalla inclusività e dal rifiuto di qualsiasi egemonia personale, a cominciare da quella messa in atto e sconfitta in poco tempo dal suo corregionale Fanfani nella metà dei lontani anni Cinquanta.
Poco alla volta presi atto che le sue scelte risultavano spesso prive di un disegno coerente, di una lucida visione strategica, non erano supportate da un’adeguata cultura e spesso erano improntate ad un notevole avventurismo. Non ho condiviso la rottura con il Partito democratico per creare uno spazio al centro e lì attrarre le truppe berlusconiane in rotta e azzerare la forza che egli aveva, peraltro, portato a livelli impensati di consenso e che, di converso, gli aveva consentito di rimanere per quattro anni a Palazzo Chigi. Mi è parso che Renzi avesse l’attitudine dei capitani di ventura che, in particolare nella sua Toscana, privi di appartenenza e d’identità, combattevano indifferentemente per l’uno o per l’altro dei principi rinascimentali. Risultava chiaro, poco alla volta, che egli era rimasto in larga misura estraneo alla storia del riformismo, incapace di vivere il partito come comunità e che, in cambio, fin dall’inizio, la “ditta” lo aveva visto come un usurpatore, come il liquidatore di una storia antica che, con gli aspetti positivi e quelli negativi, permaneva dentro la vecchia casa madre e scaldava ancora i cuori. Renzi, del resto, voleva “rottamare” i titolari della “ditta” e loro favorirono la sua sconfitta sul referendum costituzionale, ne gioirono e i più intransigenti lasciarono il Pd, mentre tutti quanti o quasi, infine, tirarono un sospiro di sollievo quando egli abbandonò il campo di gioco, cercando di portarsi via il pallone. Renzi era stato l’artefice del successo strepitoso del partito alle elezioni europee, lo aveva portato dentro la famiglia dei socialisti, compiendo un passo che non si era riusciti a fare e, in Europa e nel panorama internazionale, aveva dato all’Italia un ruolo rilevante. Non va dimenticato, poi, che fu proprio lui l’artefice della candidatura e dell’elezione di Mattarella alla presidenza della Repubblica, garantendo al Paese un punto di equilibrio che si è rivelato fondamentale nel corso di questi anni di difficilissima navigazione.
Quella appena accennata, come si vede, è una storia della politica politicante propria degli anni più recenti, quelli che sono arrivati dopo la fine dei vecchi partiti, ma è anche un brano di storia antica fatta, come purtroppo spesso è avvenuto, di vendette, di ripicche e, aspetto che mi interessa, della ingratitudine, di quella memoria breve della riconoscenza, come è stata definita, una caratteristica propria della vita pubblica, da quel “tu quoque” che lasciò incerti e confusi i confini tra ingratitudine e difesa delle istituzioni e della vita più in generale. La riconoscenza, disse Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica, è “il sentimento della vigilia” che, aggiungiamo, anche per qualche esperienza personale, difficilmente resiste fino al giorno dopo. Molto prima di De Nicola, Confucio suggeriva di non fare del bene se non si ha la forza di sopportare l’ingratitudine. Quella di Renzi e del Pd è la storia di un rapporto difficile, mai consolidato, rimasto a metà, vissuto sulla incomprensione, su ventate di entusiasmo e su scontri duri, su un astio, viene quasi da dire, su un odio che del resto accompagna la storia della sinistra ed è stato rinfocolato dall’irrefrenabile protagonismo personale di Renzi, dalla insistente volontà di “rottamare” che, nel suo odioso significato, riferendosi a delle persone, è molto peggio che rinnovare, risultando volontà di cancellare storie, intelligenze e, come ama dirsi a sinistra, vissuto personale.
A rendere il rapporto ancor più difficile ha concorso l’esplosione dei contrasti e del settarismo non più velati né ricomposti dal cosiddetto centralismo democratico. L’ultimo anno e mezzo può essere letto, quanto e ancor più del recente passato, con la categoria di giudizio della gratitudine-ingratitudine, una categoria che può sembrare banale, che non appartiene alla politologia sofisticata, ma che dà una chiave di lettura aggiuntiva per la comprensione di ciò che è avvenuto e sta avvenendo in questi giorni. Nell’agosto del 2019, quando tutto lasciava presagire le elezioni anticipate, Renzi, mettendo da parte una fortissima e reciproca ostilità tra lui e il movimento Cinque stelle e inducendo il Pd a superare notevoli perplessità, consentì la nascita del governo giallorosso, infliggendo una dura sconfitta a Salvini che cercava i “pieni poteri” e bloccando il sovranismo che, con ogni probabilità, sarebbe uscito vincente dalle urne e avrebbe emarginato il Paese dal contesto europeo per collocarlo a fianco dell’Ungheria e della Polonia. Ma già, a distanza di pochi mesi, nel febbraio scorso, quando Renzi ritenne che Conte gli riduceva lo spazio di manovra al centro e offuscava il suo protagonismo e quando prese atto di non riuscire a colpire a morte il suo vecchio partito e a fare decollare la nuova formazione, era già pronto a rompere tutto, compiendo un’ulteriore mossa del cavallo. Il racconto breve di una storia dell’ingratitudine che, scrisse Goethe, risulta sempre una forma di debolezza, di un’ingratitudine incrociata, biunivoca, può consentire di capire una caratteristica propria della politica fondata prevalentemente sui rapporti di forza, sugli scontri di interesse, sulle ambizioni e gli scarti umorali quando è del tutto scissa dall’etica. Oggi che Renzi risulta, come in tutti i sondaggi, il personaggio meno amato, quando su di lui si scatenano i giudizi più impietosi, quando sembra – insisto sul verbo sembrare – che tutte le porte gli vengano chiuse in faccia, sarei tentato di dire, per quel che vale, una parola di solidarietà. Farei come quando, nel tempo lontano dell’adolescenza, mi avvicinavo al ragazzo che veniva isolato dagli altri, a quello con il quale nessuno voleva giocare perché risultava antipatico o saccente. Ma, poi, non capisco le categorie della simpatia e dell’antipatia in politica. Si dice che chi ha carattere è di per sé antipatico e, con l’eccezione di Pertini che aveva un caratteraccio e malgrado ciò riusciva simpatico, antipatici furono, tra gli altri, Fanfani e Craxi, mentre De Gasperi, Togliatti e Berlinguer non cercarono mai di suscitare la simpatia, semmai il rispetto, il consenso e l’ammirazione dei cittadini.
Farei quella che si chiama una buona azione. Mi avvicinerei a Renzi per dirgli di imparare – non è così vecchio da non poterlo fare – a lavorare in squadra, a fare comunità, a smetterla di sentirsi il più svelto, il più ganzo del reame, perché tutti l’hanno scoperto e, poi, andrei dagli altri, da quelli del Pd, per dir loro di finirla con la ripetuta, inesorabile vocazione alle rotture, alle scissioni, forse chiedendo un’impresa improba, quella di chiudere in modo definitivo con taluni non secondari aspetti di una storia centenaria. E direi, infine, che, pur comprendendo tutte le ragioni di un’irritazione profonda e della tentazione di farla finita con quello che voleva far fallire la “ditta”, è preferibile trovare una nuova intesa con lui piuttosto che andare cercando i Ciampolillo tra i banchi del Parlamento.
(Calogero Pumilia è stato deputato della Democrazia Cristiana ed è autore del libro “La caduta”’ edito da Rubbettino e da pochi giorni in libreria)