L’idea di regolarizzare i lavoratori migranti solo per il tempo strettamente necessario a raccogliere nei campi italici il complemento vitaminico dei nostri pranzi estivi, per poi riconsegnarli, a fine raccolto, allo stato di natura, alla loro dimensione puramente biologica, privandoli di qualsiasi protezione giuridica, è l’espressione di uno spaventoso cinismo, di una desolante grettezza. I dirigenti politici che l’hanno concepita mostrano di intendere tali lavoratori non come uomini e donne, ma come gambe e braccia, meri e neri utensili di cui disfarsi dopo l’uso. Intermittenze umane, oscillanti tra la sopravvivenza e lo sbaraglio, ora salvati ora sommersi, secondo le necessità della nostra dieta. Parenti molto stretti, a guardar bene degli ebrei temporaneamente sottratti all’annientamento nei lager per essere applicati, come manodopera schiavile, allo sforzo bellico delle industrie germaniche. Avere insistito sulla dimensione guerresca dell’epidemia forse ha condotto i meno attrezzati tra i protagonisti politici della presente stagione ad una pericolosa indifferenza morale. Che poi il capo politico del partito di maggioranza, che rivendica la paternità del progetto, abbia un’espressione rassicurante e bonaria, e non abbia né il genio né la crudeltà di Albert Speer, è un dettaglio che s’inserisce in quel degradare in farsa della tragedia, nelle seconde visioni della storia.
Giandomenico Vivacqua
in La lettera scarlatta
Regolari “a tempo”: l’ultima grettezza contro i migranti
coronavirusmigranti
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