Per questa prima “Finestra sulla storia” prendo spunto da un lungo servizio sulla guerra di mafia che divenne terrorista, pubblicato ieri, venerdì, su un quotidiano nazionale.
Nella ricostruzione dei tragici anni nel corso dei quali le stragi insanguinarono la Sicilia e non solo, la scelta di Cosa Nostra viene collocata in un contesto che va molto al di là della dimensione isolana e dell’esclusivo protagonismo della criminalità organizzata. Le argomentazioni sono interessanti, ricorrenti e tuttavia ancora attendono riscontri perché passino dal campo delle ipotesi a quello della verità storica, essendo state, peraltro, ritenute non attendibili in tutti i passaggi giudiziari.
Ma non è su questo che voglio soffermarmi.
Mi interessano due riferimenti alla politica di quel tempo, che seguono il filo consueto di molti dei racconti che si sono ormai consolidati e che compongono una “verità” di parte, principalmente di quella parte che, sconfitta dalla storia, è riuscita a vendicarsi, riscrivendola. L’articolo richiamato accenna in modo sbrigativo, cosa inevitabile in un servizio giornalistico, all’alleanza che, nel 1978, portò alla nascita del governo di “solidarietà autonomistica” alla Regione, guidato dal democristiano Piersanti Mattarella e sostenuto dalla Democrazia cristiana, dal Partito Socialista e, novità importante, dal Partito comunista. “In Sicilia è Piersanti Mattarella – si legge nello stesso articolo – che vede […] la possibilità di sperimentare a Palazzo dei Normanni questo tipo di apertura”.
Il richiamo non è sbagliato, è solo parziale. L’accenno, nella sua inevitabile sintesi, rischia, magari involontariamente, di dar vita ad uno dei numerosi tentativi di modificare la storia, ad una operazione con la quale, mi viene da dire, dalle immagini del tempo vengono cancellati alcuni dei soggetti ritratti, così falsificandole e costringendole a prova di una tesi.
Il primo dei soggetti che, insieme a Mattarella, va inserito a pieno titolo in quella immaginaria fotografia è Rosario Nicoletti, all’epoca segretario regionale della Democrazia cristiana. Fu lui che, attraverso un rapporto intenso e proficuo con Achille Occhetto, segretario comunista, con intelligenza lucida e con una precisa visione politica, tessé la tela tra il suo partito e il Partito comunista. Quel rapporto sfociò, nel 1976, nella formazione del governo regionale presieduto da Angelo Bonfiglio e sostenuto dei comunisti con l’astensione, e nella elezione del comunista Pancrazio De Pasquale alla presidenza dell’Assemblea. Successivamente, in linea con quanto maturava in sede nazionale, anzi anticipandolo e, in certa misura, favorendolo, due anni dopo si pervenne alla cosiddetta “solidarietà autonomistica” e alla giunta presieduta da Mattarella. All’interno della DC quella formula politica e la scelta del presidente passarono con difficoltà, determinando una frattura che divise quasi a metà quel partito. Da un lato, da quello favorevole alla solidarietà e alla scelta del candidato a Palazzo dei Normanni, si schierarono Nicoletti, che ne fu il regista, la corrente di sinistra che a lui faceva capo con Calogero Mannino e con chi scrive, tra gli altri, e gli andreottiani di Lima – sì, avete letto bene: Salvo Lima -.
Del resto, quest’ultimo proseguiva sulla linea che, in polemica con altre correnti, era riuscito a far passare nella Democrazia cristiana di Palermo, per eleggere un sindaco del gruppo di Nicoletti con i voti dei comunisti. Lima agiva poi in sintonia con il suo referente romano, Andreotti, che presiedeva il governo della “non sfiducia”, sul quale gli stessi comunisti si astenevano, e si apprestava a guidare quello voluto da Moro e da Berlinguer.
Si riportano i duri fatti della storia, evitando la ricerca o il processo alle intenzioni e non calcolando la percentuale tra adesione sincera ad una linea politica e gattopardesca ricerca di coperture a sinistra. Su queste vicende, d’altra parte, mi soffermo più diffusamente nelle mie ultime pubblicazioni.
“Nella DC – scrisse in quei giorni Paese Sera, quotidiano romano vicino al Partito comunista – si era aperto lo scontro. Da una parte i gruppi che facevano capo alla corrente andreottiana e alla corrente dell’area Zaccagnini che ha qui, come punto di riferimento, Nicoletti e Mattarella, e dall’altra il gruppo dei fanfaniani”. Nel corso della contrastata riunione del comitato regionale, a nome della esigua maggioranza che si apprestava ad approvare la relazione di Nicoletti, ebbi il compito di chiedere a Piersanti Mattarella la disponibilità ad accettare la candidatura alla presidenza della Regione per formare quello che sarebbe stato il governo delle “carte in regola”, anche con i voti del PCI. Mattarella quei voti li ebbe solo per un anno, fino a quando, come successe a Roma, il clima mutò. Moro era stato ucciso, la DC non accettava l’ingresso di quel partito nel governo, e Berlinguer non poteva rimanere solamente nella maggioranza, escluso dalla partecipazione all’esecutivo. In Sicilia venne messa in crisi la giunta Mattarella, che tornò a Palazzo dei Normanni con una maggioranza formata dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista, mentre quello comunista si schierò nettamente all’opposizione. Nello stesso articolo dal quale siamo partiti, si sostiene in modo corretto che, in quegli anni, al Nord si scatenò il terrorismo politico e quello mafioso al Sud, dove “i cattolici sociali con Mattarella sono pronti alla nuova alleanza (con i comunisti)”.
Quella dei cattolici sociali rimane una categoria incerta e confusa, alla quale taluni ricorrono quando un grumo di inchiostro nella penna o un virus nel dispositivo elettronico non consentono di utilizzare la definizione più propria: democratici cristiani, e si trovano pertanto costretti a ricorrere ad una circonlocuzione. Di quel partito composito e per certi versi contraddittorio come la società della quale era espressione, Moro e Mattarella furono, con diversi ruoli, prestigiosi esponenti e convinti interpreti dei valori che lo sostanziavano.
Piersanti Mattarella fu un democratico cristiano rimasto vittima della violenza mafiosa, come Moro, democristiano, era stato vittima di quella terroristica. Pertini, presidente della Repubblica, nel giorno del funerale del presidente della Regione, gli rese omaggio, definendolo “un uomo giusto e coraggioso dalle grandi qualità umane, civili e politiche” e aggiunse che quel delitto era “un altro pesante tributo di sangue che la DC paga alla difesa della Repubblica e dell’ordine democratico”.