Uno dei motivi per cui Renato Schifani, col voto segreto, si ritrova puntualmente sotto a palazzo dei Normanni, è il malcontento di alcuni pezzi della maggioranza – e di Forza Italia – per la scelta, avvenuta mesi fa, di affidare alcuni assessorati apicali ai cosiddetti “tecnici”. Particolarmente sgradita è stata la mossa di designare l’avvocato Alessandro Dagnino al Bilancio al posto di Marco Falcone, approdato a Bruxelles per effetto dei 100 mila consensi ottenuti nelle urne; e non è nemmeno piaciuto il turnover fra due burocrati all’assessorato alla Salute, con l’ingresso di Daniela Faraoni al posto di Giovanna Volo, entrambi – dicono – in quota forzista. Ci sarebbe pure Salvatore Barbagallo all’Agricoltura, ma questa è una scelta più tollerata, perché partorita dall’ex vicegovernatore Luca Sammartino, costretto a scansarsi per le note vicende giudiziarie.
Al netto dei mal di pancia che talvolta scombinano i piani di una maggioranza bulgara, un dato è certo: questi tecnici non sono riusciti a imprimere all’amministrazione quel cambio di passo preteso da Schifani, e ritenuto ancora più importante in due settori chiave come l’Economia e la Sanità. Vero: Dagnino è riuscito a portare a casa la prima manovra della sua gestione in tempi ragionevolmente celeri, e ad evitare per la seconda volta consecutiva l’esercizio provvisorio (ce l’aveva fatta anche Falcone nel 2023). Ma ciò non è bastato a evitare il pressing del Ministero dell’Economia, che ha contestato le modalità di spartizione delle mance (previste dal cosiddetto “collegato”, per un totale di 60 milioni): «Mancano criteri obiettivi e trasparenti nella scelta dei beneficiari». Si era arrivati a un passo dall’impugnativa, poi è stata l’opera di mediazione dello stesso Schifani a metterci una pezza: il prossimo anno sarà un’altra storia.
Dagnino non è l’assessore delle mance, non è certo lui l’ideatore di un metodo prossimo all’azzardo; ma ha finito per assecondare un modus operandi anche appare ancora troppo opaco e privo di requisiti che garantiscano il rispetto dei “principi di eguaglianza e parità di trattamento previsti dall’articolo 3 della Costituzione”. E’ stato investito da una marea di appetiti (dei deputati) che chiunque farebbe fatica ad amministrare. Il cambio di passo non c’è stato, la trasparenza è venuta meno, mentre le lacune e i rimproveri sgualciscono ulteriormente l’immagine di una Regione che non è ancora venuta fuori (almeno finché ci saranno delle indagini aperte) dal caso Auteri denunciato sui media nazionali.
Ma l’avvocato, negli ultimi giorni, si è reso protagonista di un altro flop: la bocciatura di una norma per l’aumento degli stipendi ai manager delle partecipate. I “carrozzoni”. Un’altra iniziativa che ha riscosso l’interesse della stampa nazionale, come avviene solitamente quando si parla di sprechi. Al netto delle intenzioni, che Dagnino ha provato a spiegare in una lunga e mielosa intervista su Live Sicilia (“Si consentiva di prevedere compensi più elevati per gli amministratori delegati, i quali devono dedicarsi a tempo pieno alla società amministrata e che quindi non possono certo guadagnare 1.500 euro netti al mese”), il dato politico è fallimentare: appena 16 voti favorevoli e 39 contrari, con 18 franchi tiratori all’interno della maggioranza. Quelli che, probabilmente, non lo volevano.
L’assessore peraltro non ha fatto mea culpa di fronte all’affossamento del disegno di legge. Ha addossato le responsabilità ai deputati duri di comprendonio, alla loro voglia di rivalsa (“Il sospetto è che alcuni abbiano intravisto nella norma una riduzione degli spazi del sottogoverno”, “Alcuni si sono doluti persino del fatto che in questo modo gli amministratori delegati avrebbero potuto guadagnare più di un deputato”), non spiegando abbastanza le ricadute positive di questa riforma per la Regione; ma, soprattutto, dimenticando di tirare le fila tra il passaggio in commissione Bilancio e quello in aula. Compito che spetta ai politici, più che ai tecnici. Falcone sapeva trattare con gli alleati e rapportarsi con i rappresentanti delle opposizioni (anche a costo di indisporre Schifani). Dagnino – con buona pace del rating in miglioramento – invece si è impallato.
Così come si è impallata la sua collega alla Salute, Daniela Faraoni. In questi tre mesi dall’insediamento a piazza Ottavio Ziino non è ancora riuscita a nominare il suo successore ai vertici dell’Asp di Palermo, la più importante azienda sanitaria della Sicilia (c’è ancora il Direttore sanitario che svolge le funzioni del Direttore generale). Non è riuscita a convincere Ferdinando Croce a dimettersi dall’Asp di Trapani dopo lo scandalo degli esami istologici (il manager è stato sospeso in attesa del provvedimento di decadenza, che il diretto interessato ha deciso di impugnare). Non ha saputo mediare con i convenzionati per offrire una soluzione dignitosa di fronte all’introduzione del nuovo tariffario, che imporrà perdite ingenti nonostante i 15 milioni “compensativi” previsti dalla prossima variazione di bilancio.
L’assessore si è incartato troppo presto: ha agito da burocrate e non da facilitatore, figura di cui la sanità malata avrebbe tanto bisogno. E non ha raggiunto risultati: l’aiutino ai convenzionati dovrà passare dal voto favorevole di Sala d’Ercole, che qualche giorno fa ha già condannato l’altro tecnico, Dagnino, con una manifestazione di forza inoppugnabile, nonostante la segretezza del voto. L’unico punto a suo favore è non avere un decente metro di paragone: anche la Volo è stata una delusione incommensurabile e si è spesso sottratta al confronto con l’aula per evitare di essere investita. Pure la Faraoni è attesa da un dibattito, non ancora calendarizzato. Aspettano che si calmino le acque. Ma è ormai palese che questi tecnici hanno fallito.