Schifani l’ha capito in ritardo e dopo l’ennesimo schiaffone. Ma se lui e certuni del centrodestra fossero stati più lungimiranti, avrebbero potuto evitare la trappola del voto segreto (e della conseguente umiliazione) che per poco non costava una crisi di governo. Rileggendo le ultime dichiarazioni del governatore, in controluce, sembra emergere quell’ammissione di colpevolezza un po’ atipica per la politica, che però non cancella le dichiarazioni sciagurate né gli azzardi di questi mesi: “La riforma del sistema elettorale nelle ex Province è un capitolo chiuso – ha detto Schifani -. Se ne riparlerà quando il Parlamento nazionale approverà questa riforma. Intanto, alla scadenza dei commissariamenti daremo attuazione alla legge Delrio, perché siamo tenuti a farlo”. Come? Con le elezioni di secondo livello che il partito di Totò Cuffaro pubblicamente ripudia. Ma questa è un’altra storia e riguarda la gestione dei rapporti bilaterali coi partiti (il giro si è concluso con la Lega e FdI).
Ciò che il parlamento più antico del mondo emana in queste ore, è invece un senso di incompiutezza misto ad imbarazzo, che da solo il lavoro delle commissioni non cancella. A luglio, quando ci si ritroverà per l’ormai nota cerimonia del ventaglio, il presidente Galvagno sarà tenuto a spiegare perché nei mesi di gennaio e febbraio l’Ars si è trastullata senza votare leggi (al netto della Finanziaria). Ci aveva provato con la “salva-ineleggibili”, per consentire a tre deputati di Fratelli d’Italia, con un processo in corso, di rimanere aggrappati al seggio: ma i soliti franchi tiratori hanno sabotato la proposta dei patrioti di fronte a uno Schifani incredulo e adirato. La scena si è ripetuta nell’arco di una settimana con le province. Segno di un’architettura legislativa che non regge e che rischia di rappresentare un’umiliazione per tutti: governo e Assemblea regionale.
Ieri sarebbe dovuta andare in scena una seduta-farsa, nel giorno del martedì grasso, che è stata saggiamente posticipata. Si sarebbero presentati una ventina di deputati, tutti dell’opposizione, a chiedere il perché dell’assenza dei colleghi di maggioranza, impegnati nella celebrazione del carnevale (su cui l’Ars ha deciso di investire grazie alle mance predisposte in Finanziaria). Meglio evitare. Meglio chiudere tutto e riparlarne fra una settimana. Anche se non si conoscono gli argomenti (l’ordine del giorno recita un generico “comunicazioni”).
L’altra leggina in stand-by che imbarazza tutti, tranne i proponenti, è quella che prevede la sanatoria per le ville abusive costruite a meno di 150 metri dalla battigia (fino all’ottobre ‘83). Il primo firmatario si chiama Giorgio Assenza, capogruppo di FdI. Ma è proprio il partito della premier ad aver palesato una certa insofferenza verso la proposta, che infatti dovrebbe essere stralciata dal testo del Ddl Urbanistica (calendarizzato per la fine di febbraio). Come riportato da ‘La Stampa’, la Meloni è contraria in linea di principio. “La premier – si legge nell’articolo di Ilario Lombardo – deve fare i conti con le fughe in avanti di alleati e cacicchi del suo stesso partito, e con quella irresistibile voglia di sanatoria che prende i partiti alla vigilia di importanti appuntamenti elettorali. Annunci improvvisi che consegnano l’immagine di una maggioranza ossessionata dalla casa e che costringono Palazzo Chigi a minimizzare, a smentire, a sconfessare”.
Nel mirino della presidente del Consiglio c’è l’iniziativa di Assenza, al terzo tentativo di questo genere, ma ci sono anche i tentativi di Matteo Salvini che a metà gennaio aveva rilanciato l’idea di un mini condono edilizio. Se c’è un “divieto” vale per tutti. “FdI è contraria a ogni forma di condono. Per noi si tratta di una semplice e modesta sanatoria – fanno sapere fonti del partito – che interviene su piccole difformità, una finestra, una parete, una veranda. Se Salvini vuole usare quel termine faccia pure, ma per noi non sarà così”. All’Ars vale lo stesso metro, anche se il contesto merita un altro approccio. Tolta l’ipotesi di sanatoria, infatti, il menu di Palazzo dei Normanni rimane desolatamente vuoto (tranne l’ipotesi, fin qui solo abbozzata, di una manovra correttiva da un centinaio di milioni). Per la verità, non si tratterebbe della prima volta.
Schifani, che da Catania, per farsi bello col ministro Urso, ha rilanciato l’idea di una stagione di riforme, non sa bene che pesci pigliare. Se partire dalla proposta di Sammartino sulla riforma dei Consorzi di bonifica, o magari provare a incidere nella lotta al crack. La sua maggioranza non gli sta dando una mano e l’opposizione, che aspetta al varco le cadute del governo salvo prestarsi agli inciuci più utili, grida alla luna: “Ci sono centinaia di disegni di legge soprattutto delle opposizioni – dice a Repubblica Ismaele La Vardera, di Sud chiama Nord -, che non arrivano neanche alle commissioni: si discutono solo quelli del governo sui quali neanche la maggioranza è d’accordo. Il disegno di legge sulle dipendenze e sull’emergenza crack è ancora fermo mentre i ragazzi muoiono”.
E così i settanta deputati rimangono con le mani in mano. Qualcuno preme per anticipare le elezioni Amministrative ad aprile, così da mandare al voto 30 comuni e bloccare i lavori del parlamento per una “giusta causa”: la campagna elettorale. Un tema che si riproporrebbe da lì a breve, considerato che le urne apriranno certamente l’8 e 9 giugno per le Europee. Insomma, sembra che il governo della Sicilia (anche attraverso l’attività parlamentare) sia diventata una parentesi tra due campagne elettorali. Una postilla ininfluente rispetto alle spartizioni delle nomine, ai veti incrociati, alle consultazioni bilaterali. Alle crisi annunciate e clamorosamente ritirate perché “non c’è nessuna tensione in giunta”. Schifani l’ha detto davvero.
Meglio una bugia a fin di bene che una catastrofica verità: e cioè che qualsiasi proposta legislativa proveniente dal governo si scontri sul rischio impugnativa o, ancor prima, sui malumori della stessa maggioranza. Quelli che hanno compresso l’attività di Schifani, riducendola a poche comparsate elettorali; e che hanno svilito il ruolo di un’Assemblea ormai ridotta alla paralisi. Sembrerà retorica, ma davvero non c’è più nulla di cui parlare.