Una foto, a volte, pesa più di un ragionamento. E basta guardare quelle scattate sabato scorso alla Camera di Commercio di Ragusa per capire quanto appeal abbia perso il Movimento 5 Stelle nella “sua” provincia. La stessa in cui alle ultime Politiche – era il 4 marzo 2018 – aveva conquistato poco meno del 50% dei consensi, e dove nel giro di pochi mesi (era il giugno seguente) è riuscito nell’impresa impossibile: perdere la poltrona di primo cittadino, fino a quel momento appannaggio di Federico Piccitto (era stato il secondo sindaco grillino di un comune capoluogo, dopo Pizzarotti a Parma). L’ingegnere, tagliato fuori da una possibile ricandidatura per via dello scontro cittadino in seno ai meetup – e fregato pure alle ultime Europee – ha ceduto lo scettro ad Antonio Tringali, che dopo un modesto 22,6% al primo turno, si inchinò al centrodestra mascherato da civismo e all’ex campione di basket Peppe Cassì. Più o meno la stessa cosa è accaduta in altri comuni: da Bagheria, trascinata a fondo da Patrizio Cinque, poi emarginato dal M5s, fino a Gela
Eppure l’ultima piazza piena, a Ragusa, risale proprio alla vigilia delle Amministrative in cui i Cinque Stelle, pur risultando il miglior partito in termini percentuali, si è disintegrato. Era un’assolata domenica di inizio giugno e in piazza Duca degli Abruzzi, a Marina di Ragusa (la frazione rivierasca che d’estate somiglia a Rimini), non c’entrava più una spilla. Sventolavano, però, bandiere e ventagli. Era l’ultima comparsa di Luigi Di Maio fino a sabato scorso, quando – in occasione del suo tour nei comuni colpiti dal maltempo – ha fatto tappa anche a Ragusa, all’auditorium della Camera di Commercio, che duecentoventi posti a sedere li contiene tutti. Ma ne risultavano pieni a stento la metà. Il grande imbarazzo dei grillini al seguito dell’ex vicepremier – da Marialucia Lorefice a Pino Pisani, passando per la deputata regionale e “ragusana doc” Stefania Campo – ha consigliato di non indugiare coi telefonini sulla platea.
E lo stesso Di Maio, che nell’incontro di piazza Libertà ha annunciato l’ennesima proposta anti-casta (togliere le nomine dei manager della sanità alla Regione, per evitare il clientelismo), proseguendo nel suo giro ha ammesso che l’attività di governo ha tolto magia ai rapporti con la base: “Vi abbiamo trascurato”. Non è bastato nemmeno l’x-factor di Giancarlo Cancelleri, da poco vice-ministro alle Infrastrutture, al centro delle dinamiche per la realizzazione della nuova autostrada Ragusa-Catania, per richiamare la folla delle grandi occasioni e degli anni migliori.
Da Ragusa passa l’istantanea di un Movimento sgualcito, a cui è rimasto ben poco delle invettive di Beppe Grillo. Persino il comico ha ammesso che “non siamo più quelli di dieci anni fa, perché il mondo è cambiato”. Ma non è certo merito dei Cinque Stelle. E la situazione ragusana, e le dinamiche che si sono innescate da quel 4 marzo e dai successivi accordi – con la Lega prima e con il Pd adesso – hanno ribaltato la prospettiva garibaldina di farcela da soli, di serrare le fila e andare contro tutti, di ristabilire l’ordine con l’etica e con la morale. Alle ultime Europee il Movimento ha preso il 33%, ma nel frattempo alcuni pezzi grossi se n’erano andati, proprio come succede altrove: l’Ugo Forello di Ragusa, è infatti, l’ex assessore comunale Stefano Martorana, che ha abbandonato il Movimento dopo la decisione di salvare Matteo Salvini dall’autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale dei Ministri per il caso Diciotti. E ancor prima era stato l’ex vice-sindaco, Massimo Iannucci, a fare le valigie e accasarsi alla Lega (ma va?!?), l’ultima sperimentazione di populismo che ha segato le gambe al più ottimista dei grillini.
Ragusa come metafora di un Movimento 5 Stelle che fatica a trovare la sua dimensione. Se fosse già esistita nel 2018 la possibilità di stringere alleanze con le liste civiche, come avvenuto alle ultime Amministrative a Caltanissetta, probabilmente il processo di implosione sarebbe rallentato. Invece no: Di Maio e Cancelleri curano con le toppe, ma non prevengono coi vaccini. E il partito, che la politica e Rousseau stanno rendendo sempre più malleabile (l’ultima decisione di “imporre” la presenza in Emilia Romagna e Calabria per un’altra sonora scoppola) è finito nel tritacarne. Il faticoso radicamento territoriale coincide con la perdita di consenso a cui aveva sempre sopperito il voto d’opinione. Aver ceduto su alcuni temi (ce ne sono tanti: uno è Taranto), aver derogato alle alleanze coi nemici di sempre, aver amministrato male, rischiano di consegnare – anche in Sicilia – il Movimento 5 Stelle a un breve paragrafo della storia. Soppiantato dalle prime sardine che passano.
E rischia di rendere vano l’impegno di molti parlamentari, che a Palermo si dannano per tenere dritta la barra: puntando su alcuni cavalli di battaglia come il taglio dei vitalizi agli ex parlamentari, il “no” agli inceneritori e alle discariche private e un mucchio di altre cose. Temi che man mano perdono appeal come Di Maio. E per tornare a Ragusa, che è stata la capitale del grillismo, anche qui il cambiamento si è presentato fulmineo. I Cinque Stelle sono un partito (sì, un partito come gli altri) in disarmo: ha vissuto le stesse pene Forza Italia – che di recente ha anche pagato lo scotto dell’addio di Nino Minardo, che era anche il commissario provinciale, passato alla Lega – i centristi (l’Udc è sparito), il Pd (che ha eletto un deputato all’Ars ma ha perso rappresentanza). Il M5s, come loro, è finito nella pentola dell’indifferenza. L’antipolitica alla stregua della politica, accusata di non produrre soluzioni per i territori e pensare al proprio tornaconto. La protesta che affoga nel mare del qualunquismo. Che un partito vero non ce l’ha, ma oggi si riconosce soprattutto in Salvini e nella Lega.
A proposito, alle ultime elezioni il Carroccio in provincia ha preso quasi il 25%, e la Meloni il 7%. Ma non pensate che la parola d’ordine sia “sovranismo”: da queste parti non gliene frega nulla del sovranismo, né degli insulti di Salvini ai “terroni” scansafatiche. Si tende a scegliere il meno peggio (agli occhi dell’opinione pubblica). Ma i Cinque Stelle non hanno più nemmeno quell’etichetta.