Di mio nonno Totò ricordo i pomeriggi in cui prendevamo il filobus numero 9 che saliva a Monreale, con quello che strimpellava la chitarra e poi passava col piattino di metallo per i soldi e il bigliettaio che sui tornanti della vecchia strada quasi sempre scendeva dal filobus per riattaccare le aste che si staccavano dai fili elettrici per via delle curve a gomito. Poi mi portava al belvedere, il nonno, ci sedevamo su una panchina e mi dava l’uovo alla coque che si faceva cuocere al bar Salamone e dopo merenda riscendevamo verso Palermo sempre col filobus.
Di mia nonna Angelina ricordo le camicie da notte di flanella in inverno e di cotone d’estate e quel lavarsi i denti la sera con spazzolino e bicarbonato e quell’odore del borotalco di cui si cospargeva prima di venire a coricarsi, io nel lettone tra lei e il nonno, il sapore del latte coi frollìni dal biberon con cui mi addormentavo e la sigla di “Bonanza” in sottofondo, oltre la salsa di pomodoro più buona del mondo che dopo di lei non mai più ho mangiato.
Di mio nonno Nicola ricordo il risvolto dei pantaloni del principe di Galles, le scarpe inglesi con le stringhe sempre lucidissime e le giacche da camera, e quel Jean Marie Farina dei cui effluvi riempiva una casa. Poi la sfoglia con le mele che mi portava passando dalla pasticceria Schiavo. E quegli incipit di lettere dal paese in cui ci raccontava sempre di trovarsi «in perfetta salute e benestare…», «… e così spero di sentire di voi».
Di quello scricciolo (ma d’acciaio) di mia nonna Bianca ricordo la naturale eleganza e il sorriso quieto, rasserenante, e quel «mamma mamma» che mia madre sussurrò l’ultima volta credendo dormisse ma lei era già morta di cuore sul divano del soggiorno. Però sono molto legato a quell’inedita versione ribalda che anni dopo me ne regalò mio zio Pepé che, dopo esserne stato compagno di classe nell’adolescenza, ne era diventato cognato: quando mi raccontò che insieme si divertivano a lanciare “cìciri” sui compagni mentre il professore era distratto.