Non l’ho mai immaginato come un tunnel. Sì, quel “famoso” tunnel di cui spesso si parla, dal quale non riesci a uscire, che arrivi quasi ad arredare, in cui la luce sembra essere lontana. Io la mia depressione la vivevo come una nuvola. Una nuvola nera, pesante, ingombrante, che mi inglobava a sé, che mi confondeva. E’ difficile trovare le parole per descrivere cosa si prova quando si ha un attacco di panico, quando il cuore non riesce a calmare i suoi battiti, quando perdi il controllo dei tuoi pensieri. Tutt’oggi non riesco ancora a dare un nome a questo mix sensazionale di malessere.
E così arriva. Non ti chiede il permesso. Entra prepotentemente nella tua mente. Si insinua tra i tuoi pensieri, ti lascia inerme, senza voglia di fare, senza voglia di parlare, senza voglia di vivere. Ciò che mi é sembrato più difficile, in tutto quello schifo che stavo vivendo, era parlarne. La nostra società sembra voler quasi nascondere questa malattia. Sì, perché è una vera e propria malattia. E ne soffrono in tanti, tantissimi. È paragonabile a una febbre, alla varicella, a un incidente, a una gamba rotta. E allora cosa fai in quei casi? Ti curi, ti rivolgi a un medico, vai in ospedale, ti fai seguire, chiedi aiuto. Perché non dovrebbe essere così anche con la mente? C’è un momento in cui al tuo cervello viene la febbre, la varicella, ha un incidente, si rompe.
Perché a me? Mi chiedevo. Non mi mancava nulla. Ma lei, la nuvola, continuava a farmi piovere dentro e io non trovavo l’ombrello. La quotidianità cominciava a farsi sempre più dura: andare all’università era uno sforzo immane, lavorare impossibile, uscire inutile.
Una mattina, non ricordo quando, chiesi finalmente aiuto. Non ce la facevo più. La bastarda si era completamente impossessata della mia testa e non mi lasciava più respirare. Ne parlai solo con mia mamma, vergognandomi tantissimo. Ma perché? Di cosa dovevo vergognarmi?
Mi rivolsi a degli esperti, parlai tanto. Scavai dentro la mia coscienza, nei miei pensieri più profondi, nascosti, coperti da distrazioni futili, messi da parte. Ferite mai chiuse, parole non dette, paure, insicurezze, responsabilità troppo grandi per una ragazza di 20 anni. Il sonno era ormai mio nemico: nel buio, nel silenzio, la nuvola trovava il suo terreno più fertile ma, piano piano, ritrovai il piacere di dormire. La bilancia segnava un peso sempre più basso, nessun piatto aveva più sapore ma, piano piano, cominciai a desiderare di nuovo un panino, un pezzo di cioccolata. Stare con gli altri non mi aiutava: vederli sorridere mi faceva sentire sola ma, piano piano, ritrovai il piacere di sorridere e di stare in compagnia. La nuvola cominciava a cambiare colore. Era quasi azzurra, cominciavo a sentire il calore dei raggi del sole. La nuvola non era più mia nemica, non mi inglobava più. Stavolta mi trasportava in giro, leggera, fluttuante, morbida, comoda, sicura.
Avevo ricominciato ad amarmi. La guerra era finita. E io ne ero uscita vincitrice. Possiamo farcela tutti. Sento sempre più persone perseguitate da questa nuvola. Spazzatela via, trasformatela, cambiate prospettiva, siete più forti di lei.