Che Forza Italia sia un partito in frantumi, lo dimostrano gli ultimi eventi: non bastasse Giovanni Toti, che aveva inferto la prima coltellata alla schiena del Cav., dando vita al movimento ‘Cambiamo’, ora ci si è messo anche il sindaco di Venezia, l’imprenditore Luigi Brugnaro, che assieme al governatore della Liguria ha ‘scippato’ agli azzurri 11 parlamentari e dato vita a ‘Coraggio Italia’, un gruppo (prossimo a diventare partito) che nell’immaginario totiano vorrebbe recuperare “tutte le persone che dalla politica sono fuggite”, issando la bandiera al centro. C’è sempre l’Italia di mezzo, e il nome è questione di sfumature: da ‘forza’ a ‘coraggio’ è un attimo. Ma stavolta la scossa è destinata fare rumore: si intreccia con le condizioni precarie di Berlusconi, affaticato dai postumi del Covid e rinchiuso gioco forza nella tenuta di Arcore; e con la brama di potere di un certo quadro dirigente, capitanato dal coordinatore nazionale Antonio Tajani, che all’ombra di Silvio prova a prendersi tutto: dai sottosegretari (6 su 6) passando per la conduzione del partito in Sicilia, dove resiste l’interregno di Gianfranco Micciché nonostante i calci negli stinchi dei mesi scorsi.
La questione non meriterebbe un’analisi così approfondita se non fosse che nell’Isola, come detto, Forza Italia rappresenta il partito di maggioranza relativa all’Ars, caposaldo – con quattro assessori (sulla carta) – della giunta Musumeci e architrave della coalizione di centrodestra. Alle ultime Europee ha preso il 17% (solo la Lega ha fatto meglio). Benché in questo momento non si registrino adesioni alla nuova creatura di Toti e Brugnaro, è chiaro che lo smottamento romano potrebbe condizionare le scelte di Micciché e soci anche in funzione delle prossime competizioni elettorali.
Il commissario regionale dei berluscones, di recente, è stato oggetto di attacchi frontali e spietate rivendicazioni, da Palermo a Bruxelles. Tanto che Silvio, per cercare di placare i suoi stessi ‘falchi’, gli aveva prospettato una doppia soluzione: indicare lui stesso un successore per ammutolire gli scontenti; o affidarsi a un triumvirato (composto, fra gli altri, da Renato Schifani e Giuseppe Milazzo) che s’intestasse la leadership. Al rifiuto di Micciché, però, ha ritirato l’offerta. Da un lato tenendo in debita considerazione la lettera dei deputati regionali e dei due assessori (Scilla e Zambuto) più fedeli; dall’altro, garantendo la presenza degli assessori ‘dissidenti’ – Armao e Falcone – nella squadra di governo, sebbene appartengano più al partito di Musumeci che non a Forza Italia.
La tregua, al momento, regge. Ma non sarà duratura. Tornando al quadro nazionale, Micciché non ha mai lesinato critiche alla condotta di Toti e Tajani. Al fondatore di Cambiamo (movimento che dovrebbe sciogliersi per confluire nella nuova creatura) non ha mai perdonato il tentativo di “portare via gente verso la Lega”, come spiegò proprio a Buttanissima in un’intervista del giugno 2019, all’indomani dell’exploit delle Europee e subito dopo che Silvio Berlusconi aveva affidato al governatore ligure e alla Carfagna, in tandem, l’ultimo tentativo disperato di risanare il partito: “Vede, mentre con la Carfagna sono pronto a parlare di politica, con Toti no. Fino a oggi si è solo lamentato e ha sparato a zero contro il partito”, disse quella volta Micciché.
Anche se adesso, a flirtare con Salvini, è rimasto soprattutto Tajani. Assieme a pochi altri: da Licia Ronzulli, fedelissima del Cav., ad Anna Maria Bernini, passando per Maria Stella Gelmini, che avrebbe fatto da sponda al nuovo soggetto politico (anche se formalmente boccia l’iniziativa). Toti sembra correre in direzione opposta. Cerca salvezza al centro, per non rimanere fagocitato dalla Lega, che ha già sottratto a FI prestigiosi rappresentanti parlamentari, tra cui i siciliani Minardo e Germanà. A Tajani, invece, resta il fascino del potere: catapultato dalla presidenza del Parlamento europeo a dover gestire il crollo verticale di un partito al 6% (che raccoglie consensi solo al Sud), non è riuscito a farsi molti amici. E per la teoria del ‘meno siamo, meglio stiamo’, ha deciso di tagliare fuori la Sicilia dal governo Draghi, bruciando il nome di Matilde Siracusano, la proposta che Micciché aveva recapitato alla sua scrivania.
“Berlusconi ha nominato Tajani coordinatore nazionale del partito. Ma lui, due ore dopo, ha ritenuto di fare il coordinatore nazionale della sua corrente – è stato il duro sfogo, ex post, del commissario regionale azzurro –. Dimenticandosi di prendere in considerazione la Sicilia, l’unica regione dove FI fa segnare risultati in doppia cifra. In politica vige una regola: per essere leader, devi essere leader di tutti. Altrimenti sei solo un capocorrente. Tajani ha mostrato tutta la sua inadeguatezza”. Da quel momento non si può dire che i rapporti fra l’europarlamentare e il presidente dell’Ars siano dei migliori. Ecco perché in Sicilia – fuori da logiche totiane o filo-salviniane – sorge una terza Forza Italia. Che rimane, pur tuttavia, baricentro della politica regionale. Che non accetta imposizioni da Roma. E che Micciché, con fatica, sta provando a non disperdere. In primo luogo, privilegiando l’identità del partito: nel futuro prossimo non c’è alcuna formula ibrida, nessuna adesione alla ‘Carta dei Valori’ che porterà i centristi di ogni rango a formare liste comuni per le Amministrative di Palermo e alle Politiche e, perché no, alle Regionali. Forza Italia vuole rimanere estranea a queste logiche di ‘assembramento’, forte com’è dei suoi 15 parlamentari all’Ars e 700 amministratori locali.
Ma non per questo esclude alleanze alternative. Micciché, che per questo è stato accusato di inciuciare col Pd, ha suggerito di valutare nessi e connessi del ‘modello Draghi’. Ha accennato, inoltre, a un “governo di pacificazione”: “Dico solo che se per il bene della Sicilia occorre superare le coalizioni, è bene farlo”, aveva dichiarato in un’intervista col nostro giornale. “Oggi conta soltanto il bene della Sicilia. Non sarà facile uscire da questa situazione senza un accordo col governo nazionale e senza una forte base di pacificazione fra i partiti isolani. Per questo leggo con fastidio di posizioni cortilaie dentro e fuori Forza Italia. Le logiche delle coalizioni nate nel ’94, ormai, sono superate”. Un mese dopo la profezia si è avverata. Il cortile si è evoluto in scontro aperto. E anche alcuni esponenti storici, dall’irpino Cosimo Sibilia all’altoatesina Michaela Biancofiore, hanno fatto le valigie. Significativa l’analisi di quest’ultima: “Sto andando via da Fi dopo che Berlusconi l’ha lasciata – ha detto a Repubblica -. Certo, c’è formalmente. È il presidente. Ma c’è chi approfitta della possibilità di stargli vicino utilizzandolo come una sagoma di cartongesso per aumentare il proprio potere personale che nulla ha a che vedere con l’interesse del partito e dei cittadini”.
Ogni riferimento a Tajani e al suo club è del tutto voluto. La diaspora, che in questi giorni ha fatto registrare il picco, ha di fatto sgretolato il contingente parlamentare: erano stati eletti 104 fra deputati e senatori, oggi ne sono rimasti 78. Anche Berlusconi, che nonostante le cattive condizioni di salute ha provato a convincere qualcuno degli ‘esuli’ a rimanere, alla fine si è rassegnato. D’altronde, anche la vicenda dei ministri – Brunetta e Carfagna non erano esattamente la prima scelta dell’ex premier – è la dimostrazione plastica di un partito in balia delle onde e degli umori. Con percentuali risibili e un futuro segnato. Più che un avamposto di resistenza, invece, la Sicilia rappresenta uno scherzo del destino. Un miraggio, probabilmente l’ultimo, da cui provare a ripartire. Nonostante tutto.