In principio c’era la sola antimafia della magistratura. Quella delle inchieste e degli arresti, ma anche delle storture e dei marchi infamanti. Bastava la firma su un avviso di garanzia, che nella civilissima Italia suona come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio, per appiccicarli addosso a qualcuno, e una vita, semmai bastasse, per rimuoverli.
Peccatucci per uno Stato in guerra contro i boss stragisti. I morti si contavano a decine nell’esercito dei buoni per non perdonare le disattenzioni degli uomini in toga che ripulivano la società in nome della giustizia e del popolo. Oggi che la guerra contro chi allora seminava bombe e morte è vinta, è lecito chiedersi quale antimafia sia rimasta in piedi.
Tra scandali, simboli caduti nella polvere e revisioni di processi è un’antimafia da passeggio quella traghettata nel nuovo millennio. I paramenti antimafiosi sono ornamenti da tournée, buoni per i convegni, le sceneggiature delle fiction, le quinte di copertina dei libri e le pagine dei social network. La piazza virtuale, circo mediatico dell’apparenza, scambiata per reale tanto da prendere in serissima considerazione le minacce su Facebook. Perché niente è meglio di ciò che sembra.
Ad una certa antimafia non è rimasto che Facebook, dove qualche giorno fa è comparso un video di Antonio Ingroia. Se ne stava lì, seduto accanto alla consorte, a disinnescare la falsa accusa di essere stato bloccato prima di salire a bordo di un aereo in Francia perché alticcio. Sullo sfondo un mare cristallino e le pagode di un resort laddove una volta c’erano le palme del Guatemala. Cambiano i paesaggi e soprattutto i ruoli. Nel 2012 Ingroia aveva lasciato la Procura di Palermo e accettato un incarico dell’Onu in Sudamerica. Una brevissima parentesi – giusto il tempo di qualche collegamento televisivo – prima di imbarcarsi nell’avventura politica segnata da un fallimentare “zero virgola” nelle percentuali di voti raccolti. Allora era ancora l’ariete dell’antimafia militante che rese l’icona Massimo Ciancimino teste chiave del processo sulla trattativa Stato-mafia prima che il figlio di don Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo, venisse travolto dalle sue stesse bugie. Quella di Ingroia è “l’ombra di quel che eravamo” della magistratura. Mica era sbronzo, aveva solo litigato con una steward.
La magistratura non è più il Verbo, inchiodata come è, anche se fa finta di nulla, alle proprie responsabilità innanzitutto da chi ha il lutto eterno nel cuore. Come Fiammetta Borsellino che ha scelto di abbandonare la strada del dolore privato per renderlo pubblico. La figlia di Paolo, sempre composta e mai chiassosa, chiede conto e ragione ai magistrati per la verità negata sulla morte del padre. Prima che Fiammetta facesse irruzione sulla scena, calcata da una magistratura che si guardava allo specchio senza mai trovare difetti, si parlava sempre e solo del più clamoroso dei depistaggi della storia repubblicana. Era più consolatorio del dovere ammettere che qualcuno in toga nelle indagini su via D’Amelio e nei processi che ne seguirono si era fatto guidare per mano dai pentiti farlocchi. Fiammetta ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura di valutare “anomalie” e “disattenzioni” nella gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, un malacarne di periferia vestito da boss stragista. Il balletto dell’ipocrisia ha portato all’apertura di un fascicolo al Csm che sarà presto archiviato. È trascorso troppo tempo per ipotizzare un trasferimento d’ufficio per incompatibilità dei magistrati – questa è l’eventuale punizione prevista – visto che le toghe ipoteticamente coinvolte o non ci sono più o sono passate ad altro incarico. La categoria del tempo piegata alle esigenze della magistratura che della perdita di tempo è stata quanto meno corresponsabile.
È uno dei tanti paradossi dell’antimafia, costretta a calarsi fra le macerie dei processi inutili per cercare, oltre che la verità, un briciolo della credibilità perduta. Tra alcuni anni non ci sarà più memoria dei “non ricordo” o dei “non era compito mio”, siparietti imbarazzanti durante le deposizioni in aula di pubblici ministeri e investigatori al processo che ha sancito il fallimento di una stagione giudiziaria.
Maceria del passato e macerie del presente. Come quelle provocate dal tonfo di Silvana Saguto. La vicenda della potente presidentessa delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo ha consegnato alla cronaca l’immagine di una grande tavola imbandita, quella dell’amministrazione dei beni sequestrati alla mafia. La lotta ai patrimoni dei boss e degli imprenditori in combutta con essi è stata per anni il fiore all’occhiello dell’azione antimafia. Poi, un giorno, ci si è accorti che quel fiore stava marcendo.
La caduta dei simboli, assurti a dei dell’antimafia, era iniziata con Roberto Helg, figura centrale della Palermo bellissima che si ribellava al pizzo. Già presidente della Camera di Commercio, Helg predicava bene e razzolava malissimo. In pubblico invitava a dire no al racket e nel privato delle sue stanze si faceva consegnare laute mazzette da un imprenditore in cambio di un punto vendita nell’aeroporto che porta il nome di Falcone e Borsellino.
Ben altro spessore, nazionale e internazionale, aveva Antonello Montante, presidente della Confindustria siciliana che si vantava della svolta etica, ma sottobanco aveva creato una rete di spionaggio. Fatti per cui è già sotto processo mentre i pubblici ministeri di Caltanissetta, impegnati ormai a tempo pieno a smascherare le malefatte di colleghi e potenti, tengono aperta un’inchiesta parallela convinti di potere dimostrare che Montante condizionasse la vita politica e amministrativa della Regione siciliana. Un cerchio magico, a sua immagine e somiglianza, che scavalcava la politica. Alcuni assessorati erano l’epicentro del potere confindustriale negli anni di Raffaele Lombardo prima e di Rosario Crocetta poi.
Già, Crocetta, altro campione dell’antimafia, un trottolino in perenne visita negli uffici giudiziari siciliani con una cartella sottobraccio per denunciare le malefatte mafiose. All’ex governatore la commissione regionale antimafia, che ha setacciato la stagione di Montante, assegna un ruolo di comparsa. Altri prendevano le decisioni politiche al suo posto. Come Beppe Lumia, il senatore antimafioso per eccellenza, scomparso dai radar e ora relegato all’antimafia del silenzio mentre prima sfornava dichiarazioni e comunicati stampa un giorno sì e l’altro pure. Un po’ come Crocetta nel suo “esilio” tunisino dove più che alla mafia pensa a come pagare meno tasse in una paese dai vantaggiosi regimi fiscali. Come dargli torto.
C’è chi, come il governatore siciliano Nello Musumeci ha parlato più che di ‘sistema Montante’ dell’esistenza di un ‘sistema Lumia’. Il primo era garante di interessi particolari e specifici del mondo imprenditoriale, ma era il secondo il vero perno del sistema parallelo di governo della Regione. Molto, ma non tutto, è rimasto scritto in una relazione della commissione regionale antimafia che, ed è un altro paradosso, prima o poi dovrà indagare su stessa e sulla politica che vi piazza deputati che finiscono nei guai giudiziari con l’accusa di avere condizionato il voto con i metodi che la commissione giustamente condanna.
Se Montante è diventato un simbolo lo deve, anche e soprattutto, ai suoi rapporti con la magistratura che lo incensava e prendeva a simbolo di una Sicilia diversa persino nella parata dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Tra i mille faldoni della camera dei segreti, trovata in casa del leader di Confindustria, a Serradifalco, c’erano richiesta di favori e raccomandazioni avanzate da magistrati a Montante fra una cena e l’altra, fra una gita in barca e l’altra, fra un vernissage e l’altro. La Procura di Catania ha aperto una di quelle inchieste che hanno l’odore stantio e la forza inutile degli “atti relativi”. Inchiesta archiviata in appena due mesi e carte inviate al Csm per le “competenti valutazioni”. Neppure l’organismo di autogoverno della magistratura ha rilevato alcunché. Anche perché, ed è stata la testi della Procura di Catania, non si può escludere che Montante, l’uomo dalla doppia personalità, avesse coltivato i rapporti con le toghe per accreditarsi come personaggio al di sopra di ogni sospetto. Insomma, una copertura giudiziaria in un momento in cui era indagato anche per mafia. Il tutto, ancora una volta, avallato da magistrati, forse distratti e salottieri.
La distrazione della magistratura diventa una costante nella storia dei santuari della religione antimafiosa andati in malora. L’antimafia di oggi è sputtanata che più sputtanata non si può. Ha perso il suo appeal. Alcuni continuano a non resistere al suo fascino. Sono sparuti gruppetti di fedelissimi, asserragliati in una ridotta, che usano il linguaggio delle confraternite. Si alimentano con le tesi dei complotti. Fanno del sospetto il loro mantra. La verità è che non brillano più di luce propria, ma hanno bisogno delle fiamme di un vecchio materasso per farsi notare. Come il materasso bruciato sotto casa di Chiara Natoli, attivista di Libera, che vive nel popolare rione palermitano del Borgo Vecchio. Qualche settimana fa mentre Libera scendeva in piazza a Palermo contro la mafia qualcuno lanciava la sfida intimidendo una sua rappresentante. Era la rappresentazione perfetta, cucita addosso all’incolpevole Natoli trascinata, suo malgrado, nel melenso vortice della solidarietà mediatica. È bastata una telecamera a rovinare la festa. Si vedevano le immagini di un uomo che in pigiama dava fuoco alle robe vecchie nello stesso punto in cui la settimana precedente aveva incendiato uno dei tanti cumuli di spazzatura che ammorbano Palermo.
L’antimafia da passeggio è fatta così. Ogni tanto deve farsi mostrarsi, battere un colpo, anche a costo di rimediare magre figure. Ci si aggrappa a tutto. Ad un materasso o ad un ripetitore come quello trovato nella cassetta Enel davanti all’abitazione di Sergio Mattarella in via Libertà, la strada palermitana delle ville liberty. Il capo dello Stato spiato. Il livello del complottismo elevato all’ennesima potenza. Il caso, qualora tale fosse mai stato, si è sgonfiato nel giro di qualche ora. Si trattava di una diavoleria elettronica piazzata su ordine della polizia che indagava su una “banda del buco” e sui progetti di furto nella banca che si trova al piano terra del condominio di Mattarella. Il ripetitore serviva a captare le conversazioni dei banditi che, però, non si sono fatti vivi. Terminato il servizio l’apparecchio elettronico era rimasto nella cassetta dell’Enel.
Corsi e ricorsi storici. Perché la generosità di esserci è spesso sconfinata nella necessità di mostrarsi. “Un gesto deprecabile e un attentato alla memoria di Falcone e dell’azione antimafia”, urlarono indignate le più alte cariche dello Stato quando, alcuni anni fa, il portiere del palazzo dove abitava Giovanni Falcone si accorse che erano spariti i bigliettini lasciati sull’albero divenuto simbolo e meta di pellegrinaggio. Che oltraggio. Anche in questo caso impietose furono le immagini che riprendevano il raid di una clochard, una sbandata che non aveva idea alcuna di cosa stesse facendo. Il caso fu risolto in una manciata di giorni.
Molto più a lungo tenne banco una vicenda legata all’agenda rossa, da cui Paolo Borsellino mai si separava, e sparita nel nulla. Spuntò un video in cui si vedeva un oggetto, naturalmente rosso, a pochi metri dai resti carbonizzati della povera Emanuela Loi, uno dei cinque agenti di scorta che persero la vita insieme a Borsellino il 19 luglio del 1992. Una macchia di rosso in mezzo alla distruzione provocata dal tritolo. “Se fosse vero sarebbe pazzesco”, aveva esclamato a caldo l’allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari. Infatti non era vero. Si trattava del frammento di un parasole di quelli che si usano per riparare il cruscotto delle macchine dai raggi cocenti.
Tanto bastò per alimentare filiera dell’antimafia, quella che oggi si è ridotta a ornamento da passeggio e che trova sfogo nella convegnistica di genere a cui si iscrivono a parlare in tanti. Loro sì che si erano accorti di tutto, delle balle di Scarantino e soci, della doppia personalità di Montante e del bluff antimafioso di Saguto. Non lo avevano detto, però. Almeno non subito, giusto il tempo di gustare l’ultima cena.