Piccolo, ma massiccio. Guardandoli dall’esterno quei blocchi di cemento dovevano rimandare, senza alcuna concessione all’immaginazione, esattamente alla funzione per cui erano stati eretti. Servivano a murare vivi i reclusi, i dannati del 41 bis. Doveva essere un carcere di massima sicurezza, ma per la logistica era tutto fuorché sicuro. A Gangi, borgo sulle Madonie, la costruzione ha risucchiato un bel po’ di miliardi di lire senza che un solo detenuto vi sia stato rinchiuso. Un’incompiuta fra le tante in terra di Sicilia dove lo Stato sa essere più sciupone che altrove. Qui c’era di mezzo la Cosa Nostra che all’epoca, negli anni Ottanta, sembrava invincibile. I padrini erano ancora liberi, non come oggi che sono tutti reclusi o che in carcere ci sono rimasti fino all’ultimo respiro. Basterà a giustificare tanto spreco di denaro pubblico? Chissà. Una cosa è certa: nessuna colpa è stata espiata nelle dodici celle, disposte lungo il corridoio, le une di fronte alle altre. Sono rimaste vuote. In virtù di un progetto presentato un decennio fa – la burocrazia in Sicilia è come la giustizia, lenta – il carcere diventerà una casa delle farfalle. Le più esotiche e le più belle del mondo. Farfalle libere di svolazzare in una cella.
È un’immagine salvifica, che sa di seconde opportunità, di altri mondi possibili. Niente a che vedere con i farfalloni che si posano sulle macerie della giustizia auto assolvendosi. La buttano in caciara, sperando nella memoria corta degli altri. Che fine hanno fatto, per esempio, la trattativa Stato-mafia e i crociati che ne facevano la causa di tutte le nefandezze della storia repubblicana? Sparita la prima, spariti i secondi. Per quasi due decenni la Procura di Palermo ha spacciato la verità farlocca che i carabinieri avessero traccheggiato con i corleonesi guidati da Totò Riina. I giornali, quelli fedeli al vaticinio della magistratura, hanno smerciato titoloni che hanno suggerito paginate di libri, che hanno ispirato sceneggiature cinematografiche, che hanno condizionato a loro volta l’opinione pubblica e le giurie popolari dei processi nelle corti di assise. Si è arrivati al punto di sostenere nelle sentenze, non al circolo della briscola, che la strage di via D’Amelio avesse subito un’accelerazione a causa della Trattativa. Si disse che Paolo Borsellino avesse scoperto l’esistenza del patto sporco fra pezzi delle istituzioni e capimafia e per questo decisero di eliminarlo cinquantasette giorni dopo l’attentato di Capaci. C’era uno straccio di prova che lo dimostrasse per imbastire un processo, qualcosa di più di una suggestione? No, era un azzardo, basato sulla fragilità del sentito dire e l’autorevolezza sgangherata dei pentiti smemorati che campano sulle spalle dello Stato fino a quando aprono bocca. E se non hanno più niente da dire straparlano pur di non divenire dei sacchi vuoti. Il processo è affondato nelle contraddizioni chiare fin dall’inizio, per nascondere le quali si urlava lo slogan “fuori la mafia dallo Stato”. Ora che la Procura di Caltanissetta sta riprendendo in mano la trascurata pista del dossier “mafia e appalti” c’è la corsa a raccontare della Cosa Nostra imprenditrice già dalla fine degli anni ’80, delle infiltrazioni nel gruppo Gardini-Ferruzzi, della genesi di quella che sarebbe diventata Tangentopoli, iniziata con il controllo dei costruttori palermitani Buscemi e Bonura delle cave di marmo in Toscana. La Procura di Massa Carrara aveva inviato le carte ai colleghi di Palermo che aprirono un’inchiesta quasi subito archiviata. “Le cointeressenze sono indubbie, ma le indagini, giova ripeterlo, non hanno comunque fornito spunti idonei a individuare singoli episodi costituenti fatti di reato”: così c’era scritto nella richiesta di archiviazione del giugno 1992. Un mese dopo la carica di tritolo faceva saltare in aria la 126 parcheggiata sotto l’abitazione della madre del magistrato. Ed ecco la nuova ipotesi a cui lavorano i pm nisseni, l’indagine fu solo apparente. Fecero finta di attivarsi, era una messinscena perché in realtà i i pubblici ministeri di Palermo, guidati dal dal procuratore Pietro Giammanco, avrebbero coperto le malefatte dei mafiosi. Borsellino cercava collegamenti con i boss siciliani, ne discusse anche con Antonio Di Pietro. Non aveva, però, la delega per le indagini sulle cosche di Palermo che arrivò alle 7 del mattino del 19 luglio 1992 con una telefonata di Giammanco. Qualche ora dopo Borsellino sarebbe saltato in aria in via D’Amelio. Tre decenni dopo si riparte dal dossier “mafia e appalti”. Tutte le indagini sono legittime, diventano necessarie quando ci sono di mezzo verità negate. Sarebbe confortante riuscire, almeno stavolta, ad evitare l’avanspettacolo giudiziario in cui si è scaduti nel recente passato. Se il buongiorno si vede dal mattino, però, ha tutta l’aria di un film già visto. Tutti a scandalizzarsi, a chiedersi come mai il dossier “mafia e appalti”, l’intuizione di Paolo Borsellino non sia stata sviluppata, né nell’immediatezza della strage né nei decenni successivi. Non c’è un articolo, un’inchiesta, un resoconto giornalistico, un’intervista in cui venga citata la trattativa Stato-mafia considerata per troppo tempo alla stregua dell’aristotelico motore immobile, la causa prima dello spargimento di sangue. La Trattativa è scomparsa dal lessico e dai ragionamenti. Meno se ne parla, meglio è. La sentenza ha aperto gli occhi a (quasi) tutti. Qualcuno resiste, continua a vedere nella Cassazione non il luogo dove era inevitabile che emergesse l’illogicità della ricostruzione dell’accusa, ma il consesso dove il potere si auto conserva. A parte gli aficionados in attesa delle fantasmagoriche rivelazioni del pentito di turno a cui ritornerà la memoria magari in punto di morte, tutti gli altri vivono un comprensibile imbarazzo. Parlare di “mafia e appalti” significa innanzitutto dovere ricordare che al dossier lavorava Mario Mori e cioè il generale dei carabinieri processato e assolto per la Trattativa. Un imbarazzo acuito dal fatto che è stata la famiglia Borsellino negli anni a chiedere maggiore attenzione su “mafia e appalti”. Secondo Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, uno dei figli del magistrato ucciso, e avvocato della famiglia qualcuno si era innamorato della Trattativa e l’ha portata avanti in maniera dogmatica. Ed invece c’erano ricostruzioni alternative e plausibili. La verità è che le nuove indagini sulla strage di via D’Amelio sono figlie del fallimento della magistratura. Per decenni ci hanno fatto credere che Vincenzo Scarantino, un malacarne di borgata, avesse partecipato all’uccisione di Borsellino e degli agenti della scorta. Poi si è scoperto che era un falso pentito e sarebbe stato costretto a mentire a suon di botte dal capo degli investigatori, il super poliziotto Arnaldo La Barbera. Nel frattempo pubblici ministeri e giudici – un centinaio di magistrati fra primo grado, appello e Cassazione – sulla base di queste bugie hanno condannato degli innocenti all’ergastolo. Se c’è stato un grande depistaggio, indottrinando Scarantino, dunque agendo con dolo, (è l’oggetto di alcuni processi in corso), e successivamente è stata trascurate l’indagine “mafia e appalti” bisognerebbe ammettere che si è verificato un altro depistaggio (senza dolo, s’intende), inteso come allontanamento dal sentiero investigativo che porta alla verità. Ed è stata la trattativa Stato-mafia, frutto di un’indagine e di un processo lunghi e costosi che hanno seguito una direzione opposta a quella attuale che tutti celebrano come la più giusta. Solo che è più comodo dimenticare, fare finta che la Trattativa non sia mai esistita. Un dato mostrerebbe, però, una differenza fra presente e passato. L’indagine di Caltanissetta fa notizia ma la Procura non sembra cercare la ribalta mediatica. Probabilmente perché la faccenda è piuttosto delicata. Pubblici ministeri che indagano su altri pubblici ministeri. Sotto inchiesta sono finiti Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone. Quest’ultimo per anni è stato procuratore aggiunto a Palermo, poi capo delle procure di Reggio Calabria e Roma, ora giudice del Tribunale vaticano. Delle indagini si sa meno del passato, e anche questo è un segnale. Il fattore tempo non aiuta e confonde. Difficile riannodare i fili, facile dare per scontate circostanze con il senno di poi e raggiungere conclusioni che allora probabilmente non erano così chiare. Di sicuro bisogna chiedersi perché tutto ciò si stia facendo trent’anni dopo. Complicato per chi indaga, ideale per una nuova stagione dell’antimafia della fuffa e dei mascariamenti. Nella danza dei chiaroveggenti c’è la corsa a ricicciare vecchi resoconti per potere issare il vessillo del “noi lo avevamo detto”. Eh certo, dicono tutto e il contrario di tutto. A scrivere e parlare sono gli stessi che non si erano accorti di Scarantino il pataccaro, che pendevano dalle labbra del super poliziotto La Barbera, o che hanno fatto entrare nei processi le panzane del pataccaro Massimo Ciancimino. Ad esempio è tornato a farsi sentire Antonio Ingroia, l’ideologo della Trattativa, che di una lunga stagione giudiziaria fatta di adunanze mediatiche è stato il simbolo. Fu lui a definire il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo un’icona dell’antimafia, tra un interrogatorio e l’altro. Finì per credere anch’egli di essere un’icona talmente pop da potersi guadagnare il consenso del popolo alle elezioni. Un paio di impalpabili tentativi gli hanno fatto cambiare idea e adesso fa l’avocato. Poi un periodo così, diciamo di scarso appeal mediatico, interrotto dalle vicissitudini di una sua cliente illustre, Gina Lollobrigida, impegnata nella battaglia per l’eredità con il figlio. All’improvviso Ingroia è di nuovo in grande spolvero nei temi tanto cari dell’antimafiosità dura e pura. Eccolo ricordare che il pentito Giovanni Brusca gli riferì che “il dottor Pignatone era in rapporti con uomini di mafia di peso”, che Borsellino una volta disse a Pignatone che “su mafia e appalti non gliela contava giusta”, a sorprendersi della scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere del suo ex collega (vorrebbe forse rinunciarvi per i suoi clienti?). Se Borsellino era sospettoso di Pignatone sulla gestione delle indagini “mafia e appalti” perché credere sempre e solo nella Trattativa come causa dell’accelerazione della strage di via D’Amelio? La fantasia si sa è come le farfalle, libera di svolazzare.
Restano liberi, oltre alle farfalle di Gangi, anche i farfalloni che da vent’anni a questa parte ammorbano i Palazzi di Giustizia. Sono aggregati in una Confraternita esoterica, in un santuario di fanatismo. C’è il santone con le stimmate e il fratello irredento del giudice ucciso; c’è l’avvocato buono per tutte le intemerate giudiziarie e ci sono i combattenti e i reduci della fantomatica Trattativa: di quel colossale intruglio di azzardi e imposture che, per oltre dieci anni, ha procurato alla Confraternita onori e visibilità. Il fantomatico processo gli aveva spalancato le porte di giornali e televisioni. E loro – registi e sceneggiatori dell’imbroglio – giravano in lungo e largo per l’Italia, non perdevano una conferenza né un dibattito televisivo, raccoglievano cittadinanze onorarie e promozioni di carriera, pubblicavano libri e venivano protetti da scorte sempre più appariscenti, sempre più impenetrabili. In realtà spacciavano solo teoremi, buoni per una opinione pubblica affascinata dai misteri e dai complotti. I loro attrezzi di scena sono stati per dieci anni sempre gli stessi: le trame oscure e le regie occulte, i servizi segreti deviati e le verità inconfessabili. Fandonie, ovviamente, suffragate da un plotone di pentiti, pronti a qualsiasi bugia, a qualsiasi invenzione e a qualsiasi contraddizione. Ma sostenute soprattutto da un pataccaro, come Massimo Ciancimino, che aveva nelle vene il sangue del padre, quel Don Vito Ciancimino che era riuscito, protetto dai feroci corleonesi di Totò Riina, a diventare addirittura sindaco di Palermo.
L’unico farfallone che non si è salvato è proprio lui, Massimuccio. Lo avevano vestito come un pupo da palcoscenico. Lo avevano travestito da “icona antimafia”; lo mandavano in avanscoperta a ravvivare il teatrino televisivo di Santoro e Travaglio; gli consentivano di frequentare le segrete stanze della procura e di aprire persino i computer dove c’erano i codici riservati. Lui stava al gioco e parlava sempre a nome di don Vito. Si era trasformato nel ventriloquo del padre. E recitava così bene il ruolo del mafioso redento che il fratello del giudice Borsellino lo baciava pubblicamente nelle piazze per conferire alle sue patacche il crisma della verità.
Per una beffa del destino, Massimo Ciancimino oggi si aggira stanco e sconfitto tra i tavoli di un bar della Palermo residenziale. Solo col suo bicchiere di latte e con i segni, profondi, lasciati dal carcere: è stato condannato, oltre che per le calunnie, anche per i ventitré candelotti di tritolo nascosti nel suo giardino di via Torrearsa. E’ rimasto solo. I reverendissimi farfalloni della Confraternita – quelli che sono caduti in piedi, anche dopo la disfatta giudiziaria della Trattativa – non gli rivolgono la parola. Gli sfrecciano quasi ogni giorno davanti, chiusi nelle loro auto super blindate, protetti da un concerto di sirene esagerato, sguaiato, spocchioso, urticante, invadente. Ma nessuno – di quelli che lo coccolavano e lo addestravano – si ferma a salutarlo. Dimenticato, cancellato, rinnegato. La giustizia è una grande lotteria, c’è chi vince e c’è chi perde. Lui ha perso. I registi e gli sceneggiatori sono invece rimasti sul palcoscenico, pronti per nuove recite. In nome della giustizia e dell’antimafia.