Appena due giorni addietro scrivevo: “Zingaretti, come tutti i suoi predecessori vince le primarie e subito dopo diventa bersaglio di polemiche e di delegittimazione. Fuori un altro”. Volevo dare un senso scaramantico alla conclusione del mio articolo e non credevo che il conflitto interno al Partito democratico fosse arrivato ad un punto di non ritorno, che la crisi avesse assunto dimensioni tali da indurre il segretario nazionale alle dimissioni. Invece è capitato, puntualmente confermando che non c’è vita in quel partito se non ci sono conflitti permanenti, scontri incomponibili, vere e proprie forme di cannibalismo, tutti tratti, viene da dire, della identità di un partito che, dalla sua nascita, non trova pace. Probabilmente è stato concepito male, in una sorta di laboratorio di buone intenzioni ad opera di gruppi con culture diverse e difficilmente componibili, gravati da storie più grandi di loro, da storie che, prive della forza e della capacità di vivere nel concreto, sono diventate pagine ingiallite. Eppure quel partito ha governato il Paese, ha svolto una importante funzione nella tenuta delle istituzioni, ha occupato lo spazio a sinistra pur senza una fisionomia definita.
Ma un partito non può vivere a lungo se è retto da dirigenti che tra loro non si riconoscono, si scontrano, non dialogano, si insultano, non abitano una casa comune ma accampamenti separati con le armi al piede. Una forza di sinistra non ha futuro se smorza o addirittura chiude l’audio che la collega alla gente, ai suoi bisogni, all’esigenza di giustizia, di lavoro, di conoscenza, di protagonismo. Quella forza non vive solo di senso di responsabilità, di cultura di governo che nel tempo diventa friabile cemento di potere, se sta, magari con capacità, nei ministeri ma non sta nelle periferie della città, nei luoghi di lavoro, tra i giovani e i disoccupati. Non si possono esercitare a lungo ruoli di comando talora conquistati, viene da dire, a prescindere dal consenso popolare che rimane oscillante tra il diciotto per cento del 2018 e il venti di oggi, a cui si può aggiungere un altro magro quattro per cento del resto della frammentata galassia alla sua sinistra.
La formazione del governo Draghi ha fatto esplodere tutte le contraddizioni esistenti all’interno del Movimento cinque stelle e del Partito democratico, ha scoperchiato pentole in ebollizione, ha svelato debolezze, ha messo in luce la distanza tra il Paese reale e gli assetti parlamentari, ha tolto alle due forze il ruolo di perno sul quale ha ruotato l’esecutivo Conte, ha reso meno cogenti le ragioni di una possibile permanente alleanza. Con il nuovo governo sono svaniti il timore, la speranza, l’illusione che la destra sarebbe stata logorata rimanendo in una sterile opposizione, segnata dall’antieuropeismo e dal sovranismo. Con il nuovo governo, essa non ha perduto la propria natura, in una parte semmai può averla camuffata, o, nel migliore dei casi, ha imboccato una strada che sarà lunga e tortuosa per arrivare ad accettare pienamente i valori e il ruolo dell’Unione europea. Ora, comunque, quella parte della destra è in grado di essere maggioranza e insieme opposizione. La Lega al governo detta l’agenda e cavalca la protesta, condivide il rigore nella lotta alla pandemia e dà voce a chi legittimamente non vorrebbe pagare i costi del rigore, attenua il conflitto con Bruxelles e continua a flirtare con i sovranisti dell’Est, coglie la spinta dei ceti produttivi ad essere là dove si decide delle ingenti somme del recovery plan e continua a vellicare la pancia del Paese. L’altra parte, quella di Fratelli d’Italia, si intesta l’esclusiva dell’opposizione con l’obiettivo di lucrare i vantaggi del dissenso che verrà inevitabilmente dalla difficoltà a fronteggiare la pandemia e da quella, forse ancor più pesante, a superare la crisi economica. La destra ha una egemonia che non può essere contrastata dalla inconsistenza evidente dei Cinque stelle e dalla debolezza del Partito democratico dilaniato dalle sue “anime”, così vengono chiamate le correnti, non essendo chiaro se sono quelle morte di Gogol o, piuttosto, elementi residuali di contrapposte storie antiche e gloriose. Con questo governo, nei due anni che mancano alle prossime elezioni, probabilmente il panorama politico nazionale verrà sconvolto e modificato, come è successo nel 1993 dopo l’esecutivo guidato da Ciampi.
Il mutamento può anche risolversi nell’ulteriore rafforzamento della destra che non ha bisogno di trovare alimento da elaborazioni culturali, da riferimenti ideologici, da progetti riformisti. L’alimento lo trova nel potere diffuso, nel controllo di grandi realtà locali, nel collegamento con le forze dell’economia e della finanza, nella gestione del potere e nella indubbia sintonia con la maggioranza degli italiani. Per la sinistra tutto è più difficile. Con la sinistra giustamente si è più esigenti. Renzi, che sarà il politico meno amato ma che resta il campione della rottamazione ed ha rottamato Conte, Cinque stelle e Partito democratico, Renzi poté ritenere di competere con la destra attraverso gli slogan, con una vocazione a costruire un incerto partito nazionale, con un modernismo senza radici né cultura. Zingaretti ha tentato di reintrodurre metodi meno rampanti e progetti più credibili, ma non ha avuto la forza di piegare i feudatari, di riportare il partito dalle sedi nelle quali si esercita l’autoreferenzialità dei gruppi dirigenti ai circoli, tra le persone. Se si volge lo sguardo alla Sicilia, si scorge con evidenza la fragilità del Partito democratico, la sua irrilevanza, tranne per una dignitosa capacità di assolvere al ruolo di opposizione in Assemblea, l’inadeguatezza ad essere l’interprete della drammatica condizione della nostra terra. E qui, forse più che altrove, la destra, al netto dei risultati conseguiti con il governo della Regione, è fortissima ed è cementata ovviamente dall’esercizio del potere. La condizione del Pd siciliano, sul quale sarà opportuno tornare, non è stata affrontata né alleviata dalla nuova segreteria regionale e, per la verità, non ha trovato l’interesse di Zingaretti.
Egli comunque, con un gesto di grande dignità e di fortissima denuncia che lo ha indotto a dichiarare di vergognarsi di un partito che, in piena pandemia, litiga per questioni di potere, non riuscirà ad indurre i caicchi, ancor più forti dopo che si sono spartiti i ruoli di ministri e sottosegretari, a prendere consapevolezza delle loro responsabilità, ad avere un soprassalto di lucidità che ai caicchi è difficile appartenga. La rivolta potrebbe arrivare dai tantissimi che credono nel ruolo della sinistra, da quelli che in queste ore stanno protestando con forza in tutto il Paese, che chiedono a Zingaretti di ripensare alla sua scelta, che pretendono una riflessione seria sugli indirizzi politici, sulle alleanze, sulla improrogabile necessità di dare spazio a gruppi dirigenti nuovi e meno rissosi.
Le dimissioni di Zingaretti, se confermate, obiettivamente rafforzano la componente di destra della maggioranza e rendono più difficile il compito di Conte nell’opera di rifondazione del Movimento cinque stelle. Aumenta così il rischio di lasciare l’egemonia incontrastata a Salvini e Meloni, una prospettiva che non può essere accettabile per motivi di appartenenza né per scelte personali, ma perché la democrazia vive del bilanciamento delle forze, di un rapporto equilibrato tra maggioranza e opposizione.