Non c’è spazio, a Palermo, per i poeti cinici o scomodi. Intendiamoci: di contemporanei non ce n’è o, quantomeno, quelli che credono d’esserlo sono soltanto portatori di un pathos che si strugge delle cattiverie dell’anima universale, delle brutture del mondo intero, che osserva la suburra dello spirito attraverso l’effetto flou del mito cosmogonico. Niente di strettamente palermitano, insomma, niente che qui affondi radici al di là della favoletta anche quando scrivo di New York o di Lisbona in fondo scrivo sempre di Palermo. Sì, vabbè, ciao. Niente di carnale, cruento, perfino scatologico. Meglio archiviarli nel buio della dimenticanza, quei poeti, o rileggerli a immagine e somiglianza di una città che mai cantarono e men che meno decantarono. Eppure, Palermo, in parte, anche minima, è sempre quella, è ancora quella lì.
Metti Ciprì e Maresco, ad esempio. A giorni – il 7 aprile – sono trent’anni dall’epifania di «Cinico Tv», un’epifania nazionale visto che la battezzò quella Raitre (allora scritta tutta in lettere) diretta da Angelo Guglielmi che svelò, in episodi di minimo minutaggio, prima inseriti nelle nicchie di programmi cult e poi con diritto di serotina o notturna collocazione autonoma, in un bianco e nero abbacinante, che urlava più di qualsiasi colore, una città di desertica disperazione, che pure c’era ma era forse meglio non comparisse, o quantomeno non fosse messa in scena in modi così parossistici, con iperrealismo aspro e tossico, una città di altri luoghi e altri abitanti incarnati da una serie di figuranti, spesso disperati anch’essi, che diventarono loro malgrado icone (il ciclista in tuta, l’ex maschera di teatro in mutande, l’obeso aerofago: una galleria di freaks si disse e si dice ancora per comodità), una città fantasma eppure vivissima, disabitata ma solo perché quelle figure si erano sottratte ad ogni esigenza di socialità, ad ogni condanna di ostracismo ai margini della stessa, guardando la realtà non attraverso la solita rassegnata, dolente, retorica consapevolezza di sé e del mondo circostante, ma inalberando invece consapevolmente il diritto ad una negazione di cittadinanza, ad una sottrazione di giudizio, ad un umor nero, ad un cinismo, per l’appunto, che erano un montarozzo di detrito morale contro una fiorita collinetta di consolatori luoghi comuni. Chi l’avrebbe mai immaginato un morto ammazzato la cui bianca sindone della rituale copertura cadaverica non è macchiata di sangue soltanto «perché sono anemico»? Una città che strideva fortemente con le velleità della metropoli di vocazione europeista o della fascinazione cool di sindaci impennacchiati di aristocratica conservazione o di sbandierato progressismo.
Adesso, in una città il cui calendario gronda celebrazioni ad ogni casella tanto che dovrebbe essere tutto pittato di numeri in rosso, qualcuno che si sia alzato per ricordare “sapete che c’è? c’è il trentennale di un’invenzione che fece epoca e viene tuttora studiata nelle università e nelle scuole di cinema”? Non uno ovviamente, anche semplicemente per riportare alla memoria come una bizzarria artistica o socioantropologica quella che perfino nella stessa città molle e sonnolenta fu un fenomeno di costume e che ovviamente altrove fu preservata e catalogata (Cineteca di Bologna).
Più che per dimenticanza, per Franco Scaldati, altro scomodissimo, si può parlare di traslazione. Già ne sono state traslate le spoglie poetiche con tutto il materiale mano e dattiloscritto finito alla Fondazione Cini di Venezia per la cronica noncurante inedia delle istituzioni (e delle accademie) locali che tanto, col teatro del Sarto, si erano, appena dopo la sua morte, riempite bocca e faldoni seminariali. Poi s’è scatenata la corsa alla mise en scène. Mai come quest’anno. Al grido di “Scaldati è di tutti” che detto così, a voler pensar male, sembrerebbe un metter le mani avanti anche se è giusta, giustissima, lodevole curiosità artistica, legittima esigenza di trasmissione ai posteri, sacrosanto diritto. Un poeta non può restare imbalsamato nel suo stesso simulacro, dev’essere interpretato, reinterpretato, di pari passo coi tempi, come è accaduto e accade a Shakespeare, a Eduardo, a Pirandello anche per evitare che eventuali Marta Abba se ne arroghino in saecula saeculorum diritti sovrannaturali.
Com’era naturale che fosse, le visioni sono state eterogenee, spesso discusse e discutibili, a volte anche strabiche. Come quella del teatro pubblico di prosa cittadino che ne ha messo su due allestimenti sembrerebbe per spettatori di palati diversi, uno più gastronomico (come si sarebbe detto un tempo) per riscoprire del poeta «l’animo popolare e al tempo stesso lirico» (definizione che è dire tutto e dire niente) affidata al trio Incudine-Venezia-Maccagnano e l’altro più intellettuale (altro termine obsoleto) comunque straniante nei suoi alti riferimenti letterari, certamente più acculturato e ambizioso, ad opera del duo Gionfrida-Imparato. «Il Cavaliere Sole» e «Inedito Scaldati», l’uno accolto con sopracciglia aggrottate, l’altro da ampi sorrisi da parte della critica. Insomma, per lo Stabile, al Biondo, uno Scaldati a doppia marcia, bifronte, basculante tra ruffiana piacevolezza e rilettura creativa. E in mezzo, una serie di tentativi autonomi (la meritoria ricerca che i siciliani ma da decenni “foresti” Vetrano e Randisi portano avanti da anni, l’operina di Cutino-Palazzolo su «Totò e Vicè») ma insomma, il fatto è che, forse, se qualcuno non s’è ancora fatto una ragione del viverlo da fuori, il teatro di Scaldati, qualcun altro teme che le variazioni sul tema restituiscano un’anima sola, quella più sognante e meno desolante, che si perda per strada quella sensazione che lasciava attoniti, smarriti sia sulle panche dei teatrini che sui velluti dei teatroni.
Non è tempo di poeti cinici e scomodi, d’altronde, e questo presente meno che mai, assordati come siamo, da più giorni, a sentir progettare il futuro di una Palermo «più bella e più superba che pria», per dirla con un altro poeta. Non panormita, ma scomodo anch’egli.