Nel gennaio del 1992 si verificarono due eventi di notevole rilievo per la storia del Paese e della Sicilia in particolare. Il 20 di quel mese, il Parlamento convertì in legge il decreto che istituiva la Direzione nazionale antimafia. Arrivava al traguardo l’iniziativa del governo presieduto da Andreotti, con Martelli ministro di Grazia e Giustizia e veniva coronato da successo l’impegno tenace di Falcone che aveva puntato alla creazione di una struttura unitaria di coordinamento delle iniziative di contrasto alla mafia. Il percorso verso il voto finale della Camera dei deputati era stato tutt’altro che agevole. Si erano dovute, infatti, superare riserve e ostilità provenienti dal versante politico e da quello giudiziario. La necessità di coordinare le indagini sui crimini mafiosi era stata avvistata, se pure non in forma organica, all’inizio del 1980, sempre alla Camera dei deputati, nel corso di un dibattito su varie mozioni e in particolare su quella della Democrazia cristiana, illustrata da Calogero Mannino, e su quella del Partito comunista, da Pio La Torre. L’esigenza di criteri unitari per la gestione dei “pentiti”, essenziali per le indagini e con l’obiettivo di evitare improvvisazioni, forzature e persino strumentalizzazioni dettate da posizioni politiche o ideologiche, era stata ripetutamente posta da Falcone, chiamato, nel febbraio del 1991, a dirigere gli Affari generali del ministero di Grazia e Giustizia.
Il magistrato palermitano metteva al servizio dello Stato la sua straordinaria esperienza, maturata nel corso di tanti anni sugli spalti più esposti della lotta alla mafia e l’intelligenza di chi, meglio di ogni altro, ne aveva individuato la natura, i mutamenti e l’organizzazione. Eppure quella scelta suscitò accese polemiche, venne interpretata da alcuni come una diserzione dal fronte palermitano, come un cedimento al potere, quello democristiano e socialista, come una disponibilità a lavorare con il “nemico”, con chi era individuato e veniva dipinto come l’ostacolo più consistente per un’efficace lotta alla criminalità. Il nuovo ruolo di Falcone offrì ulteriori argomenti ai suoi numerosi detrattori – politici, mezzi di informazione, magistrati – tutti appartenenti alla vasta ed egemone galassia della sinistra. Si alzò il livello delle accuse nei suoi confronti e, in alcuni casi, vennero estese anche a Paolo Borsellino. Dopo una trasmissione televisiva alla quale aveva partecipato Falcone, sul Manifesto, uno degli esponenti più in vista del nuovo corso palermitano, quello della “Primavera”, ignorando il contesto della dichiarazione, attaccò pesantemente Borsellino, per avere sostenuto che “chiedere voti alla mafia non è reato. Molti giudici del pool antimafia” – aggiunse l’opinionista, che l’anno successivo sarebbe diventato deputato – “hanno gettato la spugna […] assumendo ruoli, posizioni e persino toni sconcertanti […]. Eroi ombrosi e irritabili si sono autodepistati, non giovando né alla chiarezza né alla riuscita della mobilitazione democratica contro il potere mafioso”.
In quello stesso periodo, Giorgio Bocca scrisse che l’accettazione della funzione di dirigente al ministero di Giustizia, dava il segno che Falcone aveva ottenuto “il legittimo riposo del guerriero”. Uno dei quotidiani più importanti, nettamente schierato sul versante progressista, lo accusò di “presenzialismo, di un impulso irrefrenabile a parlare, di una eruzione di vanità come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”.
Gli attacchi e le contumelie – ne ho riportato una piccolissima parte – non fermarono Falcone e il governo, che, anzi, quando si profilò la prospettiva dello scioglimento anticipato del Parlamento, anche per la indisponibilità delle opposizioni ad accettare tempi rapidi di discussione, per evitare che il decreto istitutivo della Direzione antimafia cadesse, pose la questione di fiducia. Il provvedimento, alla fine, fu approvato con i voti della sola maggioranza, mentre votarono contro il Partito democratico della sinistra, il Partito radicale, Rifondazione comunista e il Movimento sociale. Nelle dichiarazioni di voto, i comunisti definirono la Superprocura “inefficace, una struttura speciale, di stile e senso emergenziale”. I radicali accusarono il governo di porre la fiducia essenzialmente per “la nomina di Falcone, questo strano magistrato che, dopo avere rappresentato il partito dell’emergenza all’interno della magistratura […] è diventato il campione della mediazione”.
Queste posizioni erano alimentate e sostenute dai pareri sferzanti di importanti settori dell’ordine giudiziario. Raffaele Bertoni, presidente dell’Associazione nazionale della magistratura, che successivamente diventerà parlamentare diessino, sostenne che la “Superprocura sarà in magistratura quello che la cupola è nella mafia; con una differenza in peggio: che al di sopra della cupola, stando a Falcone, non ci sono estranei, mentre la Superprocura sarà certamente diretta da organi esterni all’ordine giudiziario”. Cesare Salvi, dirigente del Partito democratico della sinistra e futuro ministro di Giustizia, bollò la struttura come “l’ennesima trovata di un governo privo di respiro, l’ennesimo ritorno alla ricorrente idea di un vertice gerarchico per i pubblici ministeri, per dare al potere politico la possibilità di controllare i giudici”. Subito dopo la conclusione dell’iter parlamentare, iniziò il fuoco di sbarramento per bloccare la nomina di Falcone alla direzione della nuova struttura. “A capo della Superprocura”, scrisse l’Unità, storico quotidiano comunista e a quel tempo diessino, “ci sarà un magistrato vicino ai partiti di governo. Qualcuno sa già nome e cognome”. Sullo stesso giornale, in modo più esplicito e diretto, il costituzionalista Alessandro Pizzorusso sostenne di non essere sicuro della “idoneità di Falcone a ricoprire il ruolo di superprocuratore”. Gli argomenti convinsero la commissione incarichi del Consiglio superiore della magistratura, che bocciò Falcone e indicò il napoletano Agostino Cordova.
Nella stesura di questo articolo ci ho messo poco di mio. Ho preferito riportare parole e scritti di altri, le parole e gli scritti che sono stati velati non tornando utili, alla narrazione prevalente di quegli anni, non servendo alla demonizzazione di una parte politica. Occorreva tramandare una lettura che assolvesse alcune forze dalla permanente ostilità a Falcone, al suo lavoro alla Procura di Palermo e alle sue proposte a Roma ed anzi costruisse una solidarietà e una vicinanza. Questa lettura ha riempito innumerevoli pagine di giornali, su di essa si sono basati molti programmi televisivi, sono stati scritti molti libri, creando una verità e una memoria parziali e a volte false, oscurando aspetti che potessero rendere meno luminoso il percorso di alcuni partiti e di organismi sorti all’interno della società civile con l’obiettivo di combattere la mafia e, insieme ad essa, gli avversari, tutti a mazzo, indicati come collusi.
Un aspetto che ho trovato, si fa per dire “divertente”, nelle ricostruzioni degli eventi di quegli anni tragici, è la censura fino alla cancellazione del nome di Andreotti. La maggior parte di esse fanno i nomi di Falcone, di Martelli e lasciano intendere come se il governo che fece proprie e portò avanti le indicazioni del magistrato e, ancor prima che lui andasse a Roma, le iniziative di Giuliano Vassalli, ministro di Giustizia, quell’esecutivo fosse acefalo, non ci fosse nessuno a presiederlo. Occorreva evitare una sorta di contraddizione in termini: il governo varava numerosi, duri provvedimenti antimafia e il presidente del Consiglio, per definizione e successivamente per sentenza, alla mafia era contiguo. Risultava necessario oscurare il ruolo della Democrazia cristiana, per dipingerla come la sentina di tutti i vizi, quella siciliana in particolare come pura appendice della mafia. Una verità storica più articolata che non assolve, non toglie colpe e responsabilità al partito che ha governato l’Isola per tanti anni e che, semmai, rende più credibile il giudizio su di esso che, insieme alla responsabilità di non aver saputo o voluto porre un argine al dilagante potere mafioso e di avere, anzi, tollerato che alcuni suoi esponenti fossero con esso collusi, ebbe cultura, valori e capacità di governo. La storia – che abbisogna di essere costantemente sottoposta a verifiche, specialmente quando viene scritta da quelli che vincono, se non sul versante politico su quello culturale – dovrà indagare e chiarire fino in fondo le ragioni che indussero parte della stampa, della magistratura e i movimenti ”antimafia” ad essere ostili a Falcone e la sinistra ad opporsi alla proposta per l’istituzione della direzione antimafia e a diversi altri provvedimenti contro la criminalità, a preferire, in molte occasioni, di strumentalizzare quel fenomeno alla lotta politica, a respingere i tentativi di formare un fronte comune, almeno con quelle parti in grado di schierarsi, a reclamare il monopolio del contrasto alla mafia, a partecipare alla fine ad una banale e tragicomica lotta tra chi era più antimafioso tra il Pds, la Rete e i movimenti. La verità, spero, non susciti scandalo e non turbi le certezze di alcune anime belle.
Dell’altro argomento, quello che riguarda la sentenza della Cassazione, del 30 gennaio 1992, che rese definitive le pene inflitte ai criminali dal Tribunale di Palermo nel primo grado di giudizio e che di fatto attivò la terribile risposta stragista, scriverò in una prossima occasione.