Quale Pd dietro la Chinnici

Il segretario regionale del Pd, Anthony Barbagallo, e la candidata del campo progressista, Caterina Chinnici

Non è una donna di partito, e si vede. Caterina Chinnici – signora perbene, magistrato in gamba, europarlamentare capace – è la foglia di fico utilizzata dal Pd per il primo esperimento di primarie del ‘campo largo’ in Sicilia. Delle primarie sui generis: che sanciscono un’alleanza già morta (quella fra dem e 5 Stelle) e concedono a una donna come la Chinnici, fuori dalle dinamiche della politica, morigerata nell’uso delle parole, allergica ai giudizi (anche nei confronti dei rivali), di competere per la presidenza della Regione.

Non è una questione di merito: l’eurodeputata, come Fava d’altronde, andrebbe testata sul piano dell’amministrazione (mentre la Floridia, del M5s, riveste già l’incarico di sottosegretaria di Stato). E’ una questione prettamente politica. Uno dei maggiori partiti italiani, in una delle regioni più importanti, offre la propria nomination a una ‘papessa straniera’. Non iscritta al Pd (l’ha dichiarato lei stessa). E che, al netto dell’elezione (doppia) ottenuta a Strasburgo sotto quel vessillo, non ha mai rappresentato l’anima (socialista, progressista, riformista eccetera) del partito. E che adesso – formalmente – si scosta dalle sue prediche, arrivando a concepire un ‘campo larghissimo’ che va ben oltre le aspettative di Enrico Letta, Peppe Provenzano ed Anthony Barbagallo. Una creatura che non sia soltanto aperta a Italia Viva, Azione e +Europa, ma – udite udite – a Raffaele Lombardo.

L’ex governatore siciliano, come aveva anticipato questo giornale qualche giorno fa, rischia di diventare il vero protagonista dell’ultima settimana di campagna elettorale. E’ a lui che la Chinnici ha fatto riferimento nel confronto a tre di Realmonte. Con la speranziella, magari, di un’ultima spinta per le registrazioni alla piattaforma. “Secondo me bisognerà ampliare, ampliare quanto più possibile, sicuramente nel centrosinistra. E io come ipotesi non escludo di ampliare ancora in un percorso di condivisione di un programma”, ha detto l’europarlamentare. E ancora: “So che Fava sull’apertura a Lombardo ha delle perplessità, io invece ho un’idea di campo largo, ma veramente largo. E in quel governo ho lavorato bene, non ho avuto interferenze”. Chinnici è indipendente nel profilo e nelle parole. Forse troppo. Tant’è che il suo segretario di partito, che con Lombardo ha condiviso un pezzo di percorso autonomista, si annichilisce con un sorriso ed è costretto subito a smentire: “Caterina ha sottolineato un suo rapporto personale e una sua idea di campo largo”.

Ma l’eurodeputata, con gli effetti speciali di ieri, ha posto una questione. Anzi, due. La prima è la conferma della propria autodeterminazione, un marchio di fabbrica. Chinnici ha sempre avuto le mani libere: non è stata lei a salire sull’ultimo vagone della politica, ma ha consentito al Pd di associarvi il suo nome. Un pregio. Giusto o sbagliato, l’assunto costituisce un elemento vincolante: Chinnici presidente manterrebbe, quindi, la possibilità di determinare le condizioni di governo: non potrebbe scegliersi gli alleati (ci sono già), ma avrebbe l’ultima parola su donne e uomini dell’esecutivo, senza farsi condizionare da compromessi al ribasso. E da questa dipende la seconda riflessione: che fine hanno fatto il Pd e la sua identità politica? Perché ripiegare sulla Chinnici – col dovuto rispetto – anziché puntare su un uomo o una donna di partito che ne interpretasse a pieno la storia e l’idea di futuro? A partire da questa congegnosa, quanto rischiosa, alleanza coi 5 Stelle?

Rimarrà un mistero. O forse no, data la lunga astinenza elettorale – specie in Sicilia – da cui proviene questa classe dirigente. Sfiduciata da Crocetta e incapace di ristabilirsi. Molto brava con le parole, meno coi fatti, come testimonia la lunga opposizione al governo Musumeci. Che alla fine, al netto di pochissimi distinguo (come la battaglia sulla parità di genere o l’esposto alla magistratura per vagliare gli incarichi professionali assegnati con affidamento diretto dalla struttura commissariale anti Covid), non ha saputo cogliere al volo alcune battaglie servite su un piatto d’argento: a partire dallo scandalo dell’Ente minerario, che ha fatto “ballare” venti milioni fra Palermo e Londra. O dell’uso quasi disinibito dei fondi pubblici per la sanità, a garanzia di proroghe e posti di lavoro che non hanno migliorato di una virgola la condizione generale, ma che piuttosto fanno breccia nel ‘privato’ con la scusa di ridurre la mobilità passiva.

Che fine ha fatto la fame del Pd, che alla vigilia di un appuntamento importante – scegliere il prossimo candidato alla presidenza della Regione – usa una foglia di fico per non metterci la faccia? Che fine ha fatto a Palermo, dove la denuncia slabbrata di un sindaco ‘ostaggio’ dei partiti e degli schemi da Prima repubblica (Lagalla), è affidata alla concorrenza grillina? E Franco Miceli? Cosa gli è rimasto di Franco dopo la sconfitta nelle urne (e l’elezione a Sala delle Lapidi)? Ecco cos’è la politica: idee, coerenza, determinazione. Non solo quando si vince, ma soprattutto quando si perde. E’ lì che si dimostra attaccamento alla cosa pubblica: manifestando ciò che serve alla città o alla Regione, in un laborìo intenso che ti porta – quasi per induzione – a costruire un’alternativa.

Ma se il laborìo di questi anni ha portato alla Chinnici o a Miceli, vuol dire che qualcosa è andato storto. Che il partito paga dazio a un’impostazione sbagliata: della serie, poche poltrone e zero prospettiva. All’ombra di Barbagallo, che ha assunto la guida del partito dopo un congresso falcidiato (quello con Faraone), non si è saputo costruire granché. Non un nome utile – chissà se lo sarebbe stato Provenzano, che ha rifiutato l’investitura – capace di amare questa terra a tal punto da offrire una visione identitaria e moderna. Non un’alleanza solida con le altre forze riformiste, a partire dai renziani di Italia Viva o i riformisti della Bonino, in grado di garantire apertura su determinati temi, oltre che soluzioni. Questo, invece, è un Pd che sa di stantio. Di una forza imperitura, ma bastevole, che ha esaurito la spinta. Rinchiusa in una boccia di vetro per paura che evapori.

Ogni tanto a questa bolla giungono delle vibrazioni. Come accade per la Chinnici e, forse, potrebbe accadere con Raffaele Lombardo. Che “a meno di terremoti romani”, però, garantisce di rimanere nel centrodestra. Così, per il Pd, sarà sempre più difficile scalare la roccia e riappropriarsi dell’elettorato deluso (e ormai perduto).

Paolo Mandarà :Giovane siciliano di ampie speranze

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie