Dopo dodici anni, le Province siciliane saranno rette da organi scelti con le elezioni di secondo grado, quelle alle quali partecipano solo gli amministratori comunali e non i cittadini.

Sarà un passo avanti rispetto alla gestione commissariale e chiuderà un lungo periodo iniziato all’insegna del “dagli alla politica!”.

Le Province vennero abolite nel 2013 in Sicilia e nell’anno successivo nel resto del Paese. A quel tempo, non essendo ancora nota la motosega di Milei, si fece ricorso all’accetta, per abbattere i costi, si disse.

L’idea originaria era del Movimento 5stelle che della politica conosce poco, ma sull’antipolitica, a quel tempo in particolare, non lo batteva nessuno. Gli altri partiti, deboli e impauriti, non volendo apparire abbarbicati alle sedie e dissipatori del denaro pubblico, si sono accodati. Iniziò così una delle consuete rincorse verso lo sfascio istituzionale che ha segnato la storia degli ultimi decenni.

Tutti insieme sono andati giù contro le Province, enti intermedi, come sono stati sempre definiti, di area vasta, utili nella logica della sussidiarietà, del principio per il quale se un ente più prossimo ai cittadini è in grado di farsi carico e di risolvere i loro problemi, gli altri, lo Stato e le regioni, devono lasciar fare.

Ad una opinione pubblica sempre incline a dare addosso a chi gestisce il potere, che per conto suo fa di tutto per meritare “l’attenzione”, hanno trasmesso l’idea che con quel taglio si sarebbe risparmiata una barca di soldi. Alla fine, i conti sono risultati sballati e se esistesse – può darsi che esista e chi scrive non lo conosce – un metodo per calcolare i costi della mancata o ridotta erogazione dei servizi non più assicurati dalle Province, verrebbe sicuramente fuori un saldo negativo. Anziché un risparmio, c’è stata una perdita.

Ma tant’è. Intanto con l’accetta il populismo aveva ottenuto un primo risultato. Poi, in barba ai diritti quesiti, si sarebbe pensato ad abolire i “famigerati” vitalizi, recuperati, per fortuna anche di chi scrive, proprio perché di una scempiaggine anticostituzionale si trattava.

Con la stessa accetta si è tagliato il numero dei parlamentari, mentre già prima erano stati ridotti quelli regionali. C’è stato un disegno in tutto ciò, un’idea di riforma pur necessaria delle istituzioni, un miglioramento della loro efficienza e principalmente un innalzamento del livello di partecipazione democratica? Domanda retorica.

Per eliminare le Province, in Italia sarebbe stata necessaria una legge di rango costituzionale, anche se poi si percorse un’altra strada diversa e del tutto impropria. La Sicilia, con la sua competenza nel settore degli enti locali, era in grado di fare in fretta, raggiungendo il traguardo prima degli altri.

Pensate al giubilo dell’allora presidente della Regione Rosario Crocetta, il più colorito, strampalato populista, in quella carica non per conto di Grillo ma del Partito democratico al quale per cinque anni non fece toccare palla, gli procurò anzi un danno ancora non del tutto ammortizzato, al quale, per la verità, altri ne ha aggiunto nel tempo un gruppo dirigente neghittoso e inadeguato.

Crocetta impugnò subito l’accetta e nel corso di una popolare trasmissione televisiva fece marameo al Parlamento nazionale e al governo proclamando che lui in Sicilia le Province le aveva abolite. La notte precedente.

Con la luce del sole, sarebbe seguito un disegno di legge per l’Assemblea, che non fece obiezioni. Detto fatto. Le Province furono cancellate e sui Liberi consorzi, che avrebbero dovuto prendere il loro posto, non si fece nessun passo avanti.

Risorte ma non del tutto, le stesse Province, dette da noi regionali, rimasero giusto per pagare il personale e per realizzare poco altro.

Morti che hanno continuato a camminare, privati dei finanziamenti per assolvere ai compiti che nella Babele legislativa non furono mai trasferiti ad altri enti, rimanendo in capo a loro. Del resto, come si fa a finanziare un defunto? È come continuare a dare la pensione a qualcuno che è già al cimitero. Naturalmente le strade provinciali sono state abbandonate, così come le scuole di competenza, i servizi sociali ridotti o cancellati.

Vitali sono stati invece i commissari che in dodici anni si sono susseguiti, tutti nominati dai presidenti della Regione per stare a guardia del bidone. E in barba alla sussidiarietà – posto che qualcuno sappia cosa sia -, ha finito per essere accentuato il centralismo regionale.

I vari tentativi per trovare una soluzione fino a poco tempo fa non sono approdati a nulla, stretti, governo e Assemblea, tra la legge nazionale, che aveva abolito le Province nel resto del Paese e la competenza legislativa propria.

In Sicilia finalmente, dopo vari tentativi e altrettanti litigi tra i partiti, si è trovato il modo di uscire dall’impasse attraverso, come si è detto, la elezione di secondo grado.

Non si sarebbe potuto trovare un sistema migliore per una buona spinta al trasformismo, al transito da un partito all’altro, per rendere più palese la vacuità della politica, la fragilità delle coalizioni e dei partiti.

Le liste presentate mostrano una totale frammentazione della maggioranza che regge il governo Schifani. Ciascuno ha preso vie diverse. Non c’è Provincia nella quale la destra si presenti unita. La concordia si è trovata solo nello sbarrare la strada a Cuffaro. Per il resto, un po’ di qua e un po’ di là, sulla spinta di calcoli di potere e delle ambizioni dei grandi elettori.

Senza un progetto comune, una cultura condivisa, il solo collante del potere non sempre riesce a cancellare le rivalità, ché anzi le incentiva quando i conti non appattano. Tutti sparpagliati, pertanto. Uniti avrebbero stravinto ovunque.

Ma dovendo ognuno pensare per sé, la vittoria di uno dei partiti non sarebbe stata ritenuta la vittoria di tutti.

Dell’opposizione dei 5stelle non perviene notizia. Il Partito democratico, con il suo 10%, non aveva dove andare. Poteva rimanere al bivio tra una testimonianza – che in politica serve a poco – e la necessità di assicurarsi una qualche presenza negli organi che verranno eletti.

Per questo ha dovuto camuffarsi – tranne a Ragusa, dove si è presentato da solo -, ricorrendo a formazioni civiche o facendo accordi con parti del centro-destra e rendendo ancora più palese la sua divisione.

Tra destra e sinistra risulterà sempre più difficile individuare una precisa linea di divisione e di contrapposizione e in particolare la prospettiva dell’alternanza sfuma ancor di più, con buona pace di quanti, insoddisfatti del governo della Regione, potranno continuare a murmuriarsi – ché l’indignazione e la rivolta non appartengono alla troppo paziente natura del nostro popolo -, difficilmente trovando, oltre tutto, a chi affidare la volontà e la speranza del cambiamento.