Il buco nell’acqua di Caltagirone, la crisi d’identità di Diventerà Bellissima, le difficoltà a riunire la coalizione sotto una stessa sigla (in 12 dei 13 comuni al voto col proporzionale), hanno incoronato Musumeci capitano/allenatore di un club molto speciale: quello dei ‘potenti senza voti’. Sono gli stessi che dovrebbero garantirgli la ricandidatura a palazzo d’Orleans, ma che per lo stesso comune denominatore – il fatto di non avere voti – difficilmente potranno alzare la voce e l’asticella; trattare con la coalizione; o convincere gli alleati della bontà di un progetto che arranca. Da un po’ di giorni anche la tesi che bisogna misurare il lavoro e i risultati al termine dei cinque anni di governo, prima di sciogliere le riserve sul nome, è andata a farsi benedire. Nessuno la tira più fuori. E’ il sintomo di un malessere che non riguarda soltanto i comportamenti del leader nei confronti dei partiti (Micciché ha parlato di “tattica suicida”), ma anche il suo operato. Non c’è più traccia di una riforma strutturale. Le leggi approvate dall’Ars – di cui, una parte, di iniziativa governativa – terminano la loro corsa sull’impugnativa di palazzo Chigi. Per non parlare dei bilanci, appesi alla sentenza senz’appello della Corte dei Conti.
Recuperare il terreno perso nell’anno che rimane da qui alla fine della legislatura, è un’utopia. Così si sposta l’attenzione su altri elementi. A partire dai tavoli bilaterali (prima con l’Udc, poi con la Lega) che vorrebbero incidere sul piano programmatico, ma che in realtà servono a sondare il terreno in vista di future alleanze. E a sciogliere il nodo delle nomine, che ci porteremo dietro fino a primavera. I cavalieri dell’apocalisse, alias ‘potenti senza voti’, non potranno fare molto per incidere sul corso della storia. Per invertire questo piano inclinato. Semplicemente perché, nonostante una posizione consolidata all’interno del cerchio magico del presidente, non possono contare su un riconoscimento sotto il profilo numerico. Non sono stati eletti, ma soltanto nominati. E questo conta.
Nessuno mette in dubbio l’impegno elargito in campagna elettorale dai vari Razza, Armao e Messina. Nessuno dei tre, però, gode dello status di parlamentare. Una volta lo disse Micciché a proposito di Armao: “Sa perché il gruppo non l’accetta? Perché non ha mai fatto il deputato. In tanti si sono fatti il mazzo alle elezioni, in tanti vorrebbero fare l’assessore, in tanti si reputano migliori. Se guardo i dati, non vedo che guadagno abbiamo avuto ad avere Armao assessore, che è arrivato lì gratis, senza cercarsi un voto”. Il vicepresidente della Regione, voluto da Berlusconi e dai suoi falchi – in testa la fidatissima Licia Ronzulli – si è presentato al cospetto dei siciliani da corpo estraneo. O meglio, aveva già dato prova delle sue abilità da assessore al Bilancio col governo Lombardo (fino al 2012). Poi era sparito.
Aveva fondato il movimento dei Siciliani Indignati, senza testarlo alle urne. Si è paracadutato a palazzo d’Orleans grazie alla fiducia del Cav., che addirittura l’avrebbe voluto presidente prima di cedere a consigli più miti. Ha detto che a fine mandato farà le valigie (altrimenti dovrebbe cercarsi i voti). Ma nel frattempo ha consolidato la propria rete di contatti – frequentissimi i viaggi fra Roma e Bruxelles – e la propria posizione, politica e personale. Tutto legittimo, per carità. Ma i risultati lasciano a desiderare. Col fiato della Corte dei Conti perennemente sul collo, coi tavoli al Ministero dell’Economia lunghi e infruttuosi (l’attuazione piena dello Statuto è lontana dall’essere riconosciuta), e coi disavanzi che sbucano fuori a ogni più sospinto, l’obiettivo della stabilità finanziaria non può dirsi raggiunto.
Chi, gioco forza, è destinato a un ruolo da protagonista, e per buona parte della legislatura l’ha già avuto, è Ruggero Razza. Il “delfino” del presidente. Dopo l’inchiesta sui dati falsi, in cui l’assessore è tuttora indagato, e le dimissioni, l’avvocato è rientrato in punta di piedi, promettendo che non si sarebbe più occupato di politica. Ma solo di sanità. E’ sempre stato lui, però, l’equilibratore di Diventerà Bellissima. Il mediatore – più ottimista che saggio – di cui Musumeci non può fare a meno. Quello da mandare in avanscoperta non appena la campagna per la riconferma, ancor prima di quella elettorale, entrerà nel vivo. Razza, ufficialmente, non ha preso un voto alle ultime Regionali. Come Armao, è stato nominato. Ma a differenza di Armao è protagonista della vita del suo movimento. Legittimato da qualcuno a fare quello che fa. Ha ordito trame (politicamente) interessanti: l’ultima gli ha permesso di cooptare nella maggioranza gli ex grillini di Attiva Sicilia, che oggi all’Ars rappresentano una stampella irrinunciabile. Gli è mancato il guizzo per federare Diventerà Bellissima con la Lega. Ma tutti gli riconoscono un’ottima capacità di persuasione.
Dietro di lui, nella classifica dei ‘potenti senza voti’, viene Manlio Messina. L’assessore un po’ discolo (per il linguaggio utilizzato), ma da qualche giorno benvoluto da tutti. Santificato, a tratti. La decisione del suo segretario particolare di denunciare una tangente da 50 mila euro, ha permesso all’assessore al Turismo di guadagnarsi interviste e titoloni sui giornali, per discettare di legalità e trasparenza. Nessuno gli ha chiesto dei vaccini, dei s***, degli attacchi ai giornali, di come abbia speso i soldi della campagna pubblicitaria per promuovere le bellezze siciliane. Gli è stato abbonato tutto per quella denuncia ai carabinieri. Persino la Meloni gli ha dedicato un post su Facebook (alto godimento per uno come lui, innamorato dei social). L’assessore, che sogna di fare l’ambasciatore, e di riunire attorno allo stesso tavolo Stancanelli e Musumeci, è un altro ‘potente senza voti’. Un altro nominato. Ha preso il posto dello straniero Sandro Pappalardo. Ha sfruttato i buoni uffici di Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera. E così, da consigliere comunale (a Catania) è diventato assessore regionale grazie a un doppio carpiato. Si gode il momento, nella speranza che – se alla Regione non dovesse esserci più posto – qualcuno gli spalanchi le porte di Montecitorio. Tanto non serve la preferenza, basta un paracadute.
Tra i non eletti presenti in giunta – ma più in linea con i partiti di provenienza e meno esposti alla moral suasion del governatore – anche i due assessori di Forza Italia, Marco Zambuto e Toni Scilla. Il leghista Alberto Samonà, che prima dell’avvento siciliano di Salvini faceva il giornalista. L’autonomista Antonio Scavone, legatissimo a Raffaele Lombardo. E la professoressa Daniela Baglieri, la cui nomina è figlia di un accordo strutturale fra Udc e Italia Viva. Tutti gli altri, oltre al titolo di assessore, possiedono quello di deputato. Una legittimazione popolare che non li farà mai sentire estranei al ruolo ricoperto. Ma pur sempre inferiori – di rango – ai potenti. Quelli veri.