Quando la verità si fa parola, e la parola rappresentazione, arriva a teatro Claudio Fava. Uno che i generi li conosce bene per averli praticati. Il politico, e presidente della commissione regionale Antimafia, incontra lo scrittore: è così che nasce la drammaturgia sugli atti del sistema Montante, che Fava ha esplorato in lungo e il largo nel corso della sua inchiesta che ha fruttato una relazione di 121 pagine al termine di dieci mesi di lavoro ed estenuanti audizioni. C’è il mondo di Antonello Montante, l’imprenditore che si erge a paladino dell’antimafia; c’è quello di ampie fette dell’amministrazione regionale, diventata una propaggine di Confindustria; di prefetti e questori, che si piegano all’affabilità e alle influenze del “cerchio magico”. C’è dentro la storia siciliana degli ultimi anni, che si è consumata nelle stanze del potere occulto, e che Fava vuole offrire a un pubblico più ampio, di non addetti ai lavori, “in modo tale che la gente conosca qualcosa che rischierebbe di rimanere senza voce”. Le prime due puntate, a Catania, hanno fatto registrare il sold-out. Lo spettacolo, gratuito, arriva ai Cantieri culturali alla Zisa di Palermo domani sera, alle 20.30. Il 12 fa tappa a Caltanissetta.
In scena andranno Fava, che sarà il tessitore dell’opera (“Spiegherò i vari passaggi di questa indagine, in modo da rendere comprensibile e intellegibile il discorso anche agli occhi dello spettatore meno informato”), e tre attori: David Coco, Simone Luglio e Liborio Natali leggeranno le carte dell’inchiesta della commissione: “La condizione naturale della verità – spiega Claudio Fava – è essere comica e drammatica al tempo stesso. In questo caso la drammaturgia è legata alla verità degli atti. Cioè i verbali delle audizioni che abbiamo svolto in commissione Antimafia, senza ricamarci sopra. Il racconto di un’indagine, un processo, un dibattimento ha in sé un elemento fortemente teatrale. Raccontiamo di un sistema di potere complesso, fatto di atti, misfatti, azioni, reticenze. La condivisione deve essere il più possibile trasversale e ampia: queste vicende hanno determinato e forgiato il destino della Sicilia”.
Qual è l’elemento più “scandaloso” dell’indagine che si porta dietro?
“Il fatto che ci fosse piena e ampia consapevolezza di questo sistema. Ma anche il senso di impunità che animava i protagonisti. Montante che riceve a casa sua il futuro dirigente delle Attività Produttive per sottoporlo a un provino e fargli firmare un accordo, esprime un senso di onnipotenza che è già letteratura. E’ delirio. Ciascuno di questi personaggi era convinto di poter scrivere e cancellare la storia a proprio capriccio e a proprio piacimento, che tutti gli dovessero obbedienza”.
Verrà mai estirpato il sistema Montante dai rivoli dell’amministrazione regionale, dal mondo finanziario e affaristico dell’Isola?
“E’ un obiettivo legittimo a patto di capire che Montante è un pezzo della storia, quello precipitato più rumorosamente. L’idea di potere ricondurre la cultura dell’antimafia a una condizione di privilegio e potere personale, appannaggio di pochissimi eletti, è un’idea che è dura a morire. E non si esaurisce con Montante e col suo destino personale”.
Riflessioni sul 23 maggio e sulla cerimonia dell’aula bunker? Lei l’ha vista da fuori, in netta polemica con gli organizzatori.
“Io penso si sia chiuso un ciclo, una lunga stagione in cui si è pensato che talune commemorazioni dovessero essere soltanto questo: commemorazioni. Con un carattere liturgico, ripetitivo, “inoffensivo”. Io credo, invece, che ricordare Falcone, Borsellino, Terranova, Costa, Chinnici, Dalla Chiesa, Mattarella sia un modo per fare il punto di ciò che è accaduto e accade. Quali sono gli strumenti, come vanno rivisti e modificati, qual è lo stato dell’arte del rapporto tra mafia e politica, quale il livello di pervasività delle organizzazioni criminali nel tessuto economico, sociale e amministrativo. Cosa occorre rivedere nella strategia di contrasto, quali sono i funambolismi, gli eccessi e le strumentalizzazioni. Tutto questo non si fa con una parata di ministri, ma con un momento di discussione in cui tutti parlano e ascoltano. Io sono stato tra i primi a dire “ben venga il Ministro dell’Interno”. Ma sono stato anche il primo a dire che doveva venire a Palermo non solo a parlare, ma anche ad ascoltare. Ne avrebbe tratto giovamento il suo lavoro al Viminale”.
Maria Falcone, sorella di Giovanni e presidente della Fondazione, ha detto che non si deve mai mancare di rispetto alle istituzioni. La sua assenza, e quella di altri esponenti politici (come Orlando e Musumeci) rischia di svilire, anche inavvertitamente, il ruolo istituzionale di chi c’era?
“E’ esattamente il contrario. Ci sono istituzioni siciliane che non vengono considerate. Io credo che il contributo di riflessione del presidente della Regione, del sindaco di Palermo, del presidente della commissione regionale Antimafia sarebbero stati elementi di riflessione utili per il Ministro dell’Interno, per il Ministro della Giustizia, per il Ministro dell’Istruzione. Invece, questa coreografia immobile, con bambini plaudenti e ministri in processione, mi sembra del tutto superflua. Secondo me occorre un atto d’umiltà anche da parte dei familiari delle vittime di mafia, e io lo sono. Credo che il ricordo di Giuseppe Fava debba vivere nell’intenzione, nell’esperienza, nella proposta, nella sollecitazione, nel confronto con gli altri. Altrimenti resta una sorta di proprietà privata. La memoria è un bene collettivo se è gestito da tutti, senza che nessuno se ne assuma la titolarità esclusiva. Questo vale per il figlio di Giuseppe Fava, per la sorella di Giovanni Falcone e per chiunque altro”.
Il codice etico approvato in Commissione, che vuole garantire l’indipendenza dei deputati regionali rispetto a fattori esterni al loro operato, rappresenta un passo importante per il parlamento siciliano?
“Solo se entrerà nel regolamento dell’Assemblea. Noi la nostra parte l’abbiamo fatta. Abbiamo un codice che è un insieme di obblighi, divieti e sanzioni che riguardano i conflitti d’interesse, l’autonomia dei parlamentari e così via. Obblighi, divieti e sanzioni. Non una mozione degli affetti, un sentimento o un’ispirazione. Tutto questo deve essere traghettato nel regolamento dell’Ars con un voto d’aula a maggioranza assoluta. Mi auguro che il presidente Miccichè lo metta al più presto all’ordine del giorno della commissione Regolamento e che presto giunga a Sala d’Ercole”.
Il censimento da 91 milioni, pagati estero su estero e commissionato dalla Regione Sicilia a un gruppo di avventurieri, è avvolto in una coltre di omertà. Solo di recente il segretario generale Maria Mattarella avrebbe chiesto la trasmissione del fascicolo che mai nessuno, anche per far luce sugli arbitrati che ne sono conseguiti, avrebbe visto. E’ un argomento che potrebbe trovare spazio in un’indagine della commissione Antimafia o, quanto meno, nel dibattito sulla questione morale?
“Assolutamente sì, in entrambi. Aspettiamo anche noi di avere elementi più concreti per capire come la commissione Antimafia possa, eventualmente, avviare una propria autonoma indagine”.
La politica ha messo il becco nella nomina di Ester Bonafede a sovrintendente dell’Orchestra Sinfonica Siciliana. L’ex assessore del governo Crocetta ha vinto il duello con esponenti del mondo della cultura di altissimo profilo. Che segnale è?
“Buona parte delle nomine affidate alla Regione sono politiche, e servono a premiare fedeltà, cursus honorum, o campagne elettorale andate male. Stringere rapporti di lealtà e affidabilità. Parliamo di ricompense, premi di consolazione. Le nomine regionali, che passano dalla prima commissione per avere un parere di conformità, sono una teoria di piccoli e grandi personaggi che quasi sempre, e quasi tutti, sono legati a carrozzoni politici. In alcuni casi – rari – si sceglie la professionalità e la capacità. Nella maggior parte dei casi si scelgono la fedeltà e l’appartenenza politica di turno”.
Ma non le pare un po’ strano che la Bonafede, nella fattispecie, abbia un contenzioso aperto da 40 mila euro con la Fondazione di cui si appresta a diventare soprintendente?
“Le faccio un altro esempio. Nei prossimi giorni arriverà in commissione la nomina di Orazio Miloro a direttore del Teatro Vittorio Emanuele di Messina. Si tratta di un ex assessore della giunta Buzzanca, condannato a 1 anno e 5 mesi di reclusione per falso in bilancio. Ma è il profilo che il governo regionale ritiene più idoneo a guidare un teatro che ha una sua storia e la sua nobiltà e che ha bisogno di essere riportato in vita. Cercheremo anche in questo caso di capire il nesso eziologico fra un assessore al Bilancio condannato per falso in bilancio e l’incarico di presidente di uno dei più importanti teatri del Mezzogiorno”.
Coi conti della Regione in rosso, la parola più pronunciata del momento è “rimpasto”. Non crede che le prerogative del governo siano diverse da quelle dei siciliani?
“Prendo atto che l’unica volta in cui si è intercettata la presenza del presidente della Regione e del governo regionale, a ranghi pressoché completi, in aula è stato mercoledì sera per discutere dell’emendamento – poi accantonato – che modificava la data delle elezioni di secondo livello delle ex province, data che la stessa maggioranza aveva chiesto di posticipare di un anno. Pensi un po’ quanto sia fondante questo tema per la salvezza della Sicilia… Cioè, l’unico momento in cui abbiamo avuto la possibilità di confrontarci col governo è stato per discutere di un dettaglio di lana caprina, puramente tecnico, che non cambierà nulla da un punto di vista economico né della qualità della politica. Ci piacerebbe, piuttosto, avere momenti di confronto su temi strutturali, di sostanza, di sopravvivenza come quelli finanziari. Ma pare che il governo non abbia voglia di confrontarsi”.
Perché?
“Il presupposto è sempre uguale e viene considerato un titolo di merito – così è stato sbandierato da Musumeci – mentre io lo considero un titolo privativo di funzione e di legittimità politica. Cioè che “noi non abbiamo una maggioranza”. E quindi, non avendo una maggioranza, l’Ars va considerata un parente scomodo da invitare solo alle feste comandate quando è indispensabile”.
Ma non teme che la mancanza di liquidità si traduca in problemi più seri?
“Sì. La questione economica è legata alla qualità della vita dei siciliani, che non passa soltanto attraverso i livelli occupazionali, ma anche dagli interventi pubblici (tipo mobilità e servizi), e dalla capacità di progettare la spesa da parte della Regione. Sembra di stare in un eterno limbo, in attesa di idee, progetti e risorse. Questa, purtroppo, è una terra che deve tirare a campare. Ma dove si organizzano discussioni di tre ore per decidere la data di elezioni di secondo livello…”.
L’affermazione di Bartolo alle Europee va letta in proporzione al numero di voti riportati. La metà di quelli presi dal Pd in Sicilia.
“Io sono contento per due ragioni: la prima è personale. Considero Bartolo una persona degna di rappresentarci bene a Bruxelles su uno dei temi dai quali dipenderà il destino dell’Europa: se è essere chiusa o aperta, se essere un luogo di contaminazione o di egoismi. Bartolo da questo punto di vista rappresenta la migliore risposta allo spirito revanscista, finto-patriottico di Salvini”.
E la seconda ragione?
“Bartolo era fuori da qualsiasi apparato, dai classici gruppi di consenso organizzati. Questa quantità di voti dimostra che lo spazio per un voto d’opinione in Sicilia è forte e va perlustrato, attraversato. Il messaggio che arriva dall’elezione di Bartolo è che bisogna coinvolgere i siciliani non soltanto pretendendo atti d’obbedienza, ma proponendo un immaginario politico e civile nel quale ci si possa riconoscere al di là delle proprie appartenenze. Il voto d’opinione ha un suo diritto di cittadinanza, una sua forza, una capacità di riscatto, che spero venga tenuta in considerazione quando proveremo a lasciarci alle spalle queste stagioni di governi malinconici”.