Hanno catalizzato l’attenzione di un migliaio di persone alla “Kore” di Enna, luogo simbolo della nuova intellighenzia siciliana. Ma per dire cosa? Anche a distanza di 48 ore dal suo battesimo, il progetto di “Grande Sicilia” non svela nulla di nuovo rispetto al nome e al simbolo. Grande, in che senso? Basta uscire dal perimetro di quell’Auditorium, e scrollare i social, per capire che l’esperimento tardo-rinascimentale di Lombardo, Micciché e Lagalla non è stato compreso. Non c’entra l’età anagrafica, bensì il vissuto. E la prospettiva.

Affidarsi a tre personaggi che appartengono alla prima e alla seconda repubblica, che parlano continuamente al passato raccontando aneddoti l’uno degli altri, e cucirgli addosso un altro contenitore, l’ennesimo, non è (non appare) così rassicurante rispetto alle sorti della Sicilia. E non basta il sottotitolo – civici, autonomisti e democratici – per spiegare il progresso e le aspirazioni. E’ sembrato il congresso delle parole vuote, l’ennesimo tentativo di annacamento della politica siciliana che non sa più pensare a cose originali. Nemmeno chi si professa controcorrente o contro la casta, lo dimostrano le ultime operazioni in sede di manovra finanziaria, ha compreso a pieno le esigenze di questa terra.

Massimo movimento col minimo spostamento: annacamento, insomma. Perché non è affatto chiaro come un sindaco in evidente difficoltà nell’amministrare la propria città, che accetta supinamente le condizioni poste dall’alto (vedi il tackle di Forza Italia per rimuovere l’assessore Rosi Pennino), possa garantire un valore aggiunto alle aspirazioni del popolo del centrodestra, dove per “popolo” si intende quello scevro dalle manie ultras. Come può Lagalla offrire un’alternativa all’attuale situazione siciliana, se non riesce da solo a trovare una soluzione ai mille problemi di Palermo, a partire dalla raccolta differenziata che non riesce a smuoversi (manco fossimo negli anni ‘90)?

Anche Raffaele Lombardo, che aveva pronunciato parole di fuoco per l’inerzia di Schifani nella gestione della sanità, oggi si ritrova agganciato a un’altra realtà, dove il governatore merita non una ma due legislature, e dove il “povero” assessore Di Mauro va sacrificato, dopo essere stato a lungo il bersaglio mobile del presidente. Ed è lo stesso Lombardo che, dopo aver gridato ai quattro venti le proprie insofferenze per le “pratiche indegne” messe in atto da alcuni rivali interni a palazzo d’Orleans, oggi decide di abbassare l’asticella della tensione (e dell’attenzione). Da barricadero a segugio: “Mi dissero: non metterti contro Renato, è uno tosto. Avevano ragione…”, ha ammesso nel corso del convegno di Enna.

E quindi la spina nel fianco ha deciso di siglare con Schifani un patto duraturo per sopravvivere entrambi. Lunga vita ai re. Senza fastidi, senza rumori di sottofondo. Tranne quelli – rantoli più che altro – di Gianfranco Micciché che richiama l’attenzione sull’innominabile Ferdinando Croce (manager dell’Asp di Trapani), per il quale i Fratelli di Sicilia – infischiandosene dell’oltraggio alla decenza – continuano a battersi in maniera indefessa. Ma davvero si fatica a leggere dietro il nuovo partito una rivoluzione ideale, un ribaltamento di prospettiva, un interesse pubblico. E sia ben chiaro: non vale soltanto per Lombardo e per Lagalla. La stessa Forza Italia, il partito del governatore, è reduce da un simposio sulla giustizia organizzato al Teatro Politeama di Palermo assieme al segretario nazionale Antonio Tajani. Sulla giustizia. Non sulla siccità, sulla sanità, sui trasporti. Bensì sulla giustizia, utilizzando un copione già scritto e l’immaginetta di Falcone sotto il proprio simbolo. Giusto per non farsi mancare una bella spruzzata di retorica.

Da questi appuntamenti, però, non nasce una riflessione, un’autocritica, un’indignazione. E’ vero: la maggioranza non può sostituirsi all’opposizione (così sbiadita da apparire nulla), ma in questo modo diventa imperscrutabile il confine tra FI e Grande Sicilia, fra Grande Sicilia e Noi Moderati, fra Noi Moderati e Noi Svalvolati. Non c’è una sola differenza da cui possa dipendere una scelta. Non c’è un solo tema, programma o idea che possa incentivare il solito “55% che non va più a votare”, a recarsi ai seggi. L’ha ripetuto anche Totò Cuffaro, che la settimana scorsa ha espugnato il feudo di Vittoria mandando in crisi l’amministrazione rossa di Ciccio Aiello. Un gran colpo, non c’è che dire. Ma con quale prospettiva? In quanti si risveglieranno dopo l’ondata DC per aderire a un centro sempre più frastagliato?

Creare un partito o movimento sembra l’ultima frontiera dell’annacamento. Dove, in realtà, l’unica cosa che conta è l’autoconservazione. Dato che i cittadini non le vanno più dietro, solo la casta può provvedere a se stessa. E’ una tesi che trova la propria rappresentazione plastica nelle province natìe. I cittadini non voteranno, ma loro s’ammazzano di lavoro e di vertici per cercare di trovare un candidato unitario, anche se l’impresa sembra impossibile, quasi titanica. La casta non va d’accordo nemmeno con se stessa, talvolta si sbrana con ingordigia, si azzoppa, si ferisce coi franchi tiratori. Ma c’è sempre un punto di caduta, che fa bene, va bene, a tutti: ed è l’invito del presidente dell’Ars al presidente della Regione di continuare per “sette anni e mezzo” a capo del governo, o la foto in cui Schifani e Galvagno posano a fianco del nuovo simbolo e dei reduci che l’hanno resuscitato (o creato, dipende dal punto di vista). Da ‘stiamo bene insieme’ a ‘siamo tutti uguali’ il passo è breve.