Avvertenza: non è una recensione.
Zalone mi piace, e anche molto. Avevo aspettative alte su questo nuovo film. L’ho visto ieri sera. Prima di vederlo avevo letto molte cose, comprese le recensioni di due mostri sacri come Paolo Mereghetti (che paragona Zalone nientemeno che a Sordi) e Natalia Aspesi, sul cui sguardo si è acceso lo stesso stupore di quando, bambina, vide Biancaneve e i sette nani. Non posso perdere, dicevo tra me e me dopo essere finalmente approdato nel cinema giusto dopo tre tentativi andati a vuoto causa sold out.
Un’ora e mezza dopo, uscendo dal cinema, ero lì a chiedermi quanto abbia inciso il tema trattato – i migranti, la sofferenza, la fuga dalla guerra – sul giudizio di molti commentatori, compresi i due appena citati. Secondo me molto. La sensazione (lo dico da appassionato di cinema, non certo da esperto) è che senza il tema di fondo le critiche sarebbero assai più obiettive (e veritiere) verso un film mediocre, lento, floscio, senza ritmo, con una regia inesistente (lo dirige lui, Checco, e non il suo partner storico, Nunziante) e che si trascina stancamente verso un finale melenso e pasticciato. Della mano felice di Paolo Virzì, che scrive il film assieme allo stesso Zalone, nessuna traccia.
Ecco, quello che infastidisce non è il film sbagliato (volevi fare il salto di qualità e non ti è riuscito, pazienza, ti voglio bene lo stesso) ma i peàna ingiustificati solo perché si parla di migranti, come se il tema dei migranti (di cui con delicatezza e sobrietà, ma ahimè senza fanfare, parlano anche Ficarra e Picone nel Primo Natale) possieda un lasciapassare, una polverina magica, una sorta di passepartout, che lo tenga al riparo da un Fantozzi qualsiasi che si alzi dal fondo della sala e osi gridare “è una cagata pazzesca”.