Comici in cerca della Palermo che non c’è

“Raccontiamo di un linguaggio perduto per amore di ritrovarcelo, per sensibilizzare la gente a parlare palermitano con sapore, senza essere tasci”. Dietro una storia c’è sempre una morale. “Torna a casa lessico”, lo spettacolo che andrà in scena da venerdì 4 marzo al teatro Jolly di Palermo, non fa eccezione. Salvo Piparo ed Ernesto Maria Ponte, i due attori protagonisti, provano a rispolverare con leggerezza alcune espressioni cancellate dalla modernità, dalla globalizzazione, dall’uso sfrenato degli inglesismi di cui “i palermitani fanno carne di porco”.

“Molte mamme di questa città – redarguisce Piparo – dicono ai propri figli di non parlare il palermitano perché è volgare ed è il linguaggio dei bulli mafiosi. Ma noi dimostriamo che non è così”. Come? “Attraverso il dialogo con un ragazzo della nuova generazione (il 14enne polistrumentista Duilio Virzì), palermitano anch’egli, che – di fronte a espressioni pennellate, a tinte forti – non comprende un bel niente. Allora è vero – ci diciamo – che c’è un’altra Palermo, una Palermo che rinnega se stessa. Così facendo, però, si perde la propria identità, la possibilità di riesumare una città che non c’è più, persone che non ci sono più, come i nostri nonni e i nostri avi. E quindi ci si distacca, c’è uno scollamento con la storia rispetto alle nuove generazioni che parlano in maniera diversa, abbreviata”.

Ma cos’è il palermitano doc? “E’ un linguaggio all’ingrasso perché ha in bocca sempre cose da mangiare: quando hai la memoria corta è mangia e scorda, uno che ha le orecchie sporche avi u pitrusinu na ricchi, uno che vuole mandare qualcuno a quel paese gli dice ma va fatti na zuppa i cachì o va vuscati u pani. Anche quando ci regalano qualcosa, pensiamo subito: ammuccamu. Ai ladri ci mancianu i manu, agli invidiosi ci mancianu gli occhi. Parafrasiamo il cibo nell’uso comune. Ecco che Palermo si rivolta su se stessa attraverso due teatranti che hanno paura di non essere più capiti e, per questo, devono continuare a raccontare le loro storie facendo uso di un lessico “italianizzato”. Quando dico mi fai cadere la faccia a terra, sto parlando in italiano ma è un’espressione palermitana; mi sono messo il ferro dietro la porta, idem; oppure, l’acqua mi bagna, il vento m’asciuga; lo scecco come cade si alza; il signore se l’è vista. Ma che significa tutto questo?”.

Piparo si risponde da solo: “Dimostriamo a queste mamme e a tutta la città che si può continuare a parlare un italiano forbito, e pennellarlo con espressioni – non volgari – che arricchiscono il concetto di immagini”. Lo spettacolo è composto da tre momenti: “Raccontiamo il linguaggio Covid, costretto a scontrarsi con la pandemia; poi, il linguaggio delittuoso e omertoso di questa città, perché non si può far finta che non esista; e infine le parole in disuso, che è un peccato perdere. E poi c’è un finale teatrale che va a fotografare gli antichi mestieri perduti, fino a incontrare Buttitta…”.

Oggi fare satira è diventato un mestiere assai arduo: “Non si possono dire determinate cose, ma se ne possono dire delle altre, poi c’è questa faccenda del politicamente corretto di cui si abusa – spiega Piparo – La satira non vuole essere né volgare né scostumata, ma deve esserci. Come diceva Proietti, satira è l’anagramma della parola risata: perché rinunciare a questo modo irriverente di farsi una risata, affrontando le cose da un punto di vista un po’ più scomodo?”. Piparo e Ponte lo faranno dal 4 al 20 marzo, ogni venerdì, sabato e domenica al Teatro Jolly. Sabato 5 sabato 11 è in programma una doppia proiezione, alle 17 e alle 21.15. Il resto degli appuntamenti è in serale.

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