Non scomodiamo Jan Palach, lo studente universitario di 21 anni che il 16 gennaio del 1969 si cosparse il corpo con una tanica di benzina nel luogo simbolo di Praga, la piazza San Venceslao, e si diede fuoco. Morì tre giorni dopo ed entrò di diritto nei libri di storia e nell’immaginario collettivo, eroe della Resistenza ceca, di quella “Primavera di Praga” brutalmente repressa dai carrarmati sovietici. Gli eroi sono sempre giovani e belli.

E non scomodiamo neppure Mohamed Bouazizi, l’ambulante tunisino di 26 anni che, contro i continui abusi e le angherie della polizia locale, si diede fuoco il 17 dicembre del 2010 davanti a un altro luogo simbolo: la sede del governatorato della sua provincia, Sidi Bouzid. Anche lui morì giorni dopo, ma diventò storia e leggenda. “Exemplum” di come una palla di neve possa divenire valanga, il suo sacrificio travolse i paesi del Nord Africa fino al Medio Oriente e oltre. Con conseguenze a domino ancora oggi per milioni di cittadini dell’area. In principio fu “La rivoluzione dei gelsomini”. Poi, “La primavera araba”. Regimi radicati da decenni come quello di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto scomparvero in pochi mesi, con capi di Stato costretti alle dimissioni e alla fuga. Perfino alla morte per mano dei ribelli, nel caso del Rais libico Gheddafi.

Senza scomodare, infine, i bonzi del Vietnam, antesignani della non violenza e della forma di protesta estrema che è l’auto immolarsi come pire umane, c’è la tragedia del professore calabrese che ieri l’altro si è dato fuoco. E anche lui dinanzi a un luogo simbolo: la caserma dei carabinieri di Rende, in provincia di Cosenza.

Di lui si sa quasi nulla, giovane, 33 anni, di stanza come docente in Lombardia, si trovava in Calabria da pochi giorni, non si sa perché.

Il 31 gennaio è stato visto arrivare in auto dinanzi alla stazione dei carabinieri di Rende. Ha posteggiato, è uscito dalla macchina con una tanica in mano, si è versato la benzina di sopra e si è dato fuoco proprio davanti all’ingresso della caserma. E certo uno si domanda perché il docente abbia scelto proprio quel luogo delle istituzioni come sfondo per un dramma personale consumato alla luce del sole e davanti a testimoni occasionali.

Tutto qui. Un video diventato “virale” documenta la tragedia. Purtroppo, data la drammaticità delle immagini. I giornali nazionali non hanno dato spazio alla vicenda. Quelli locali o online hanno scritto unanimi la stessa identica cronaca: “Agli investigatori non risultano episodi pregressi di tipo penale, né militanza in gruppi ideologici estremi. L’ipotesi è quella di un gesto estremo ed è anche giudicata del tutto fortuita la scelta del luogo dove è stato compiuto”.  Ecco, chissà chi è colui che ha giudicato “fortuita” la scelta del luogo. Per uno che decide di darsi la morte e di darsela in un modo così eclatante.

Il giorno dopo le testate locali registrano il decesso. Ma poi fanno marcia indietro. Nonostante abbia riportato ustioni sul settanta per cento del corpo, di lui non si può dire neppure “di sicuro c’è solo che è morto”, come scrisse in altri tempi Tommaso Besozzi, giornalista di razza, a proposito della controversa uccisione del bandito Salvatore Giuliano.

Sul giovane professore cala il silenzio. Vittima di se stesso, certo. Ma anche vittima del sospetto agitato e subito ritirato di essersi dato fuoco “perché sospeso dal lavoro, forse per mancata vaccinazione anti Covid”, mentre sembra che avesse “le carte in regola” e almeno una doppia dose di siero. Un giallo, quindi, le motivazioni. Per un antieroe che non varca neppure la soglia dei giornali, in questo caso ligi alle regole della deontologia e alla virtù della decenza. Di suicidi non si parla, è il principio.

A complicare il caso ci si mette Open, “impresa sociale” fondata da Enrico Mentina con lo scopo di valorizzare giovani giornalisti in un momento di crisi assoluta dell’editoria. Open si occupa molto anche di fact-checking con alcuni giornalisti che si dicono “indipendenti” messi lì a mettere la pecetta “falso” o “contesto mancante” alle notizie. Soprattutto ad alcune notizie. Il sito è l’unico su Google a dedicare diciotto pagine al professore di Rende, per smontare le falsità intorno al suo dramma esistenziale senza dire alcunché sulle sue privatissime ragioni. Quelle che lo hanno portato a scegliere un modo e un luogo così simbolici per cercare la propria morte.

E anche Facebook blocca i link sulla vicenda, avvisando che secondo l’insindacabile riscontro di un fact-checker “indipendente”, ci mancherebbe, “la notizia che a Rende un uomo si è dato fuoco è falsa”, con la precisazione che non era un docente.

Povero professore. Privato perfino della sua identità, della sua laurea, di quanto aveva fatto per andare a insegnare lassù al Nord, in Lombardia, come era scritto in un comunicato della Uil Scuola Monza e Brianza, ritirato subito dopo averlo pubblicato sul web.

Una storia triste. Un uomo ingoiato dal silenzio. Come nella “casa di Bernarda Alba”, l’ultima opera di Federico García Lorca. Terminata un mese prima dello scoppio della Guerra Civile in Spagna nel luglio del 1936 e due mesi prima di essere lui stesso fucilato nelle campagne di Granada da uno squadrone della milizia franchista.

Lo stesso silenzio premonitore del regime del Caudillo in Spagna. Il silenzio che ossessiona Bernarda Alba, la dispotica madre andalusa che entra in scena per la prima volta richiamando al silenzio e pone fine all’opera proprio chiedendo silenzio “a salvaguardia del bene e del buon nome delle figlie”.