Rimane in me il ricordo di un uomo di grande valore politico e morale, di Piersanti Mattarella, che 45 anni fa, nel giorno del battesimo di Gesù, mentre andava a Messa, la mafia brutalmente uccise. Resta la memoria di un percorso comune nello stesso partito, del riferimento agli stessi valori, alla medesima tradizione, di un amichevole rapporto con un uomo solare. Mi rimane in mente il momento nel quale, nel corso di una riunione dell’organismo regionale democristiano, su incarico della maggioranza interna guidata da Rosario Nicoletti, mi recai da Piersanti a proporgli di accettare la candidatura per la guida della Regione. Non posso dimenticare un viaggio a Pantelleria durante la campagna elettorale per le elezioni nazionali del 1976, dove egli venne a sostenermi e dove insieme comiziammo. Resta il profondo rimpianto per un protagonista che ha lasciato nella storia della Sicilia una traccia indelebile, che ha testimoniato i valori più alti dell’esperienza dei cattolici democratici, della Democrazia cristiana della quale fu uno dei più validi esponenti, di un uomo che combatté a fronte alta la violenza mafiosa e il malcostume e che ebbe un lucido disegno di riscatto e di sviluppo della nostra terra.

Di quell’impegno morale e di quel progetto Mattarella fu il punto di riferimento più elevato, l’uomo che interpretò un movimento, una tendenza, una volontà che si stavano consolidando negli ultimi anni. Già il governo presieduto da Angelo Bonfiglio aveva dato un segnale di svolta ottenendo nell’ultima sua fase il consenso dell’opposizione comunista.

Il Partito socialista con Nicola Capria e Gaspare Saladino aveva messo in atto un processo di rinnovamento della propria classe dirigente. Un gruppo di funzionari regionali aveva disegnato e portato all’approvazione legislativa, con relatore proprio Mattarella, un assetto amministrativo nuovo della Regione per renderlo moderno, efficace, sottraendolo all’esclusiva logica clientelare.

L’attuazione delle regioni a statuto ordinario ridava spinta e forza al meridionalismo e conferiva alla Sicilia, per la lunga esperienza autonomistica, un ruolo di guida e di orientamento in un confronto con lo Stato autorevole e non piagnone.

Achille Occhetto, segretario regionale dei comunisti, interpretava nell’Isola l’indicazione di Berlinguer per un rapporto meno conflittuale e dialogante con la Democrazia cristiana, per il compromesso storico.

Nella Democrazia cristiana attorno a Rosario Nicoletti, suo segretario, cresceva e si affermava un nuovo ceto politico. Nuovi protagonisti, Calogero Mannino, Rino Nicolosi, Calogero Lo Giudice, Angelo Bonfiglio, Pippo Campione e se mi è consentito, chi scrive, stavano diventando i protagonisti di una storia diversa e in gran parte nuova del maggiore partito e segnavano un discrimine con una vecchia realtà che tuttavia rimaneva al suo interno.

A Roma Moro tesseva i rapporti per il governo di solidarietà con l’obiettivo di rendere compiuta la democrazia, eliminando la conventio ad escludendum nei confronti del Partito comunista perché esso potesse assumere anche nel contesto internazionale di quel tempo il ruolo di possibile forza di governo, avviando così il processo dell’alternanza.

In Sicilia Nicoletti, Occhetto e Capria creavano le condizioni, ancor prima che a Roma, per il governo di unità autonomistica con il sostegno dell’estrema sinistra. Quell’esperienza durò solo un anno.

Durò fino a quando i comunisti, rimasti a metà del guado, in maggioranza e non al governo, decisero di togliere l’appoggio e di tornare ad una opposizione dura e a volte perfino insultante nei confronti del presidente della Regione.

“Dopo appena un anno”, scrisse Salvatore Butera, uno dei suoi più apprezzati collaboratori, “il Partito comunista uscì dalla maggioranza e iniziò un’opposizione molto violenta nei confronti di Mattarella. Basta guardare il giornale L’Ora, che era allora il quotidiano palermitano di opposizione vicino al Partito comunista italiano. […] i comunisti lo lasciarono solo, non c’è più quell’ampia solidarietà, quel possibile riferimento ai partiti particolarmente attenti, almeno sulla carta, alla questione morale”.

Piersanti compose con i socialisti la sua seconda giunta, che durò anch’essa un anno. Non reggendo infatti alla rottura dei rapporti a sinistra e alle polemiche di cui erano costantemente investiti, abbandonarono la maggioranza. Pochi giorni prima dell’assassinio Mattarella aveva avuto dal suo partito l’incarico di tornare a palazzo d’Orléans. Non esistevano per nulla le condizioni per recuperare un rapporto con i comunisti, una strada preclusa dalle scelte della Democrazia cristiana nazionale, che si apprestava al suo congresso nel quale si sarebbe formata una maggioranza che dichiarava l’impossibilità di qualunque accordo tra i due più grandi partiti.

Malgrado l’evidenza dei fatti, ancora in questi giorni, nella ricorrenza di quel tragico 6 gennaio del 1980, si ripropongono le mistificazioni, i tentativi di riscrittura della storia, la volontà di strappare Piersanti Mattarella – come avviene anche con Moro – dalla propria tradizione.

Quello del presidente della Regione fu un delitto politico-mafioso, teso non a bloccare l’accordo inesistente e non riproponibile tra la Dc e il Pci, ma ad impedire che il processo di rinnovamento appena delineato potesse incidere su antichi e consolidati equilibri di potere, sulle trame che legavano parte della politica alla criminalità organizzata, sul malaffare che caratterizzava non poco la vita amministrativa.

Quel delitto volle lanciare un messaggio in particolare a quei democristiani che volevano consolidare un nuovo corso compiendo una svolta autentica. La straordinaria esperienza di Mattarella non fu quella di un eroe solitario o di un solitario eretico, ma quella di un democristiano che tentò con coerenza e determinazione di avviare il cambiamento della Sicilia e del suo partito.