Pochi giorni e un pezzo della verità dovrà per forza venire a galla. Dalla relazione in aula dell’assessore all’Economia Gaetano Armao, uno dei fedelissimi del cerchio presidenziale, si conoscerà la posizione del governo Musumeci sui conti che non tornano mai. Da circa otto mesi, se consideriamo conclusa – col patto della “spalmatura” – la rovinosa esperienza del disavanzo con lo Stato. Otto mesi in cui la Regione ha imparato a galleggiare: prima con l’esercizio provvisorio, valido fino al 30 aprile, poi grazie all’approvazione (il 2 maggio) di una Finanziaria illusoria, ancorché di cartone, che ha regalato ai siciliani un bilancio invisibile fatto coi soldi del Monopoli (le cosiddette risorse extraregionali). Nessuno – del regio governo – ha pronunciato una parola su quando i fondi saranno disponibili: nei prossimi giorni verrà pubblicato in Gazzetta ufficiale il primo bando per l’assegnazione di 128 milioni alle imprese con meno di dieci dipendenti danneggiate dal lockdown. Il resto tace. Compresi i 75 milioni (in cambio di voucher) per far respirare gli operatori del turismo.
Il governo rischia di sbattere la faccia sulla drammaticità del momento e sulla insoddisfazione del popolo siciliano, qualora le risposte di Armao – che però non accetterà domande: il dibattito in aula è a senso unico – fossero evasive. O, peggio, illusorie come la Finanziaria. A quel punto anche Musumeci, che in questi mesi ha totalmente ignorato il problema, ma che ha piena fiducia nel suo assessore, dovrebbe prenderne atto e proporre una soluzione. Finora è mancata. Altrimenti non saremmo qui a celebrare il morto a quattro mesi dalla risurrezione.
Il tempo a disposizione è stato impiegato in altro. In faccende sulla carta più redditizie, perché senza confini geografici e mediatici. L’operazione Lampedusa ha pagato, e pagherà, dividendi in termini di popolarità: Musumeci con la sua ordinanza provocatoria – impugnata da Roma e sospesa dal Tar – si è guadagnato il rispetto del “capitano”, forse qualche punticino nei sondaggi, e le attenzioni delle tv, che hanno fatto a gara per averlo. Di recente persino il governatore del Friuli Venezia Giulia, il leghista Fedriga, ha ipotizzato una “ordinanza alla Musumeci” se non smetteranno di trasferire i profughi negli hotspot della sua regione. Nello è stato un fulgido esempio di resistenza alle “invasioni”; e si è dimostrato un sostenitore attivo della destra salviniana. La convocazione di Conte e le liti con la Lamorgese, dopo aver fatto risuonare l’allarme per settimane, sono state la ciliegina sulla torta. Lo scettro nelle mani di un governatore che si crede un re.
A tal punto da mettersi contro tutti: dalla chiesa ai giudici, passando per il parlamento. L’allenatore portoghese José Mourinho, noto con l’appellativo di Special One e per aver guidato l’Inter, lo chiamava il “rumore dei nemici”. A cui replicava piccato. Anche a Musumeci non ce n’è uno che vada bene. Monsignor Lorefice, arcivescovo di Palermo (uno di quelli “con la tonaca viola”), si è ridotto a gregario di Di Maio o Zingaretti. La giudice Quiligotti, presidente della terza sezione del Tar di Palermo, che ha sospeso l’ordinanza sulla chiusura dei porti, sarebbe solo “compiacente” nei confronti del governo Pd-Cinque Stelle (per essere membro di una commissione di saggi alla Regione Lazio, governata dal “dem” Zingaretti). Prima di lei era toccato a Luciano Abbonato, relatore della Corte dei Conti, considerato brutto e cattivo per aver fatto parte della giunta di Orlando a Palermo (e non tanto per aver “stangato” il documento di economia e finanza della Regione). E che dire dei parlamentari siciliani, di quelli alla Sammartino per intenderci, che non fanno altro che ostacolare la corsa solitaria del presidente, trovando ogni volta un espediente?
In termini di public relations, gli ultimi mesi sono stati uno sfracello. Anche alcuni degli “alleati” più forti, da Raffaele Stancanelli a Saverio Romano, non hanno condiviso alcune mosse del governatore, prendendone le distanze. E qualcun altro, come Micciché e Candiani, nicchiano. Anche se il primo, ancora in attesa del dovuto rimpasto, prima di Ferragosto, pubblicamente, ha sussurrato un pensiero malandrino: “Essere presidenti della Regione non significa credersi Dio e se qualche scemo gli dice che io sono un pericolo per lui, bene, è solo uno scemo. Perché io non mi candido”. La storia recente della Sicilia è piena di presidenti che si credono dio, o re: su tutti, Raffaele Lombardo e Rosario Crocetta. Re, sovrani imbattibili e insostituibili, magici accentratori di potere.
Una vecchia storiella diceva che “un ranocchio vanitoso voleva assomigliare al bue, allora cominciò a riempirsi di aria. Ma i suoi amici gli dicevano che era lontano dall’obiettivo. Fece un ultimo sforzo… e scoppiò”. Con Lombardo e Crocetta andò più o meno così. L’ex governatore di Grammichele, eletto alla guida di una coalizione di centrodestra, mise in atto il ribaltone più incredibile (e inspiegabile) di ogni tempo. Mettendo da parte Miccichè, dopo aver già escluso l’Udc, e attirando a bordo il Pd di Lumia. Partì a destra e svoltò a sinistra in men che non si dica (nel giro di un paio d’anni). Senza tener conto della volontà degli elettori e abbandonando – contiguamente alle vicende giudiziarie che man mano si facevano strada – le redini della Sicilia. Si credeva talmente forte da poter dirigere il traffico della politica – come un burattinaio dà vita alle marionette – e sfidare il mondo senza risentirne. La sua epoca finì prima del previsto, con le dimissioni. Era il 31 luglio 2012, quasi un anno prima della scadenza elettorale. Contribuì l’indagine a suo carico per concorso esterno.
Venne dopo di lui il “reazionario” della politica, un proto-grillino in piena regola: Rosario Crocetta da Gela. Preceduto dalla sua indole di sindaco antimafia, si autoproclamò governatore del cambiamento. Nominò in giunta un cantautore (Franco Battiato) e uno scienziato (Antonino Zichichi), decise di abolire nottetempo le province, ma il suo fu un percorso affastellato di stranezze. Perse – come il predecessore –il contatto con la realtà quando iniziò a credere di poter amministrare e ammaestrare la Sicilia con i suoi 59 assessori e i continui ricambi in giunta. Come se le persone non avessero valore, e contasse solo l’allenatore (per tornare a Mourinho). Come se il tecnico di una squadra, anziché trovare un modulo congeniale per i giocatori che ha disposizione, scambiasse i difensori con gli attaccanti solo per farsi bello e dimostrare di essere il migliore. Il tempo passato a discutere con la propria maggioranza, e con Lumia all’interno delle stanze dell’Ars, gli costò carissimo: lasciato solo dal Pd, nel 2017 non solo non ebbe la forza, né il coraggio, di ricandidarsi. Ma non riuscì nemmeno a presentare la propria lista, come promesso, a sostegno di Micari. Sfidare la sorte gli costò il posto e un “esilio” in Tunisia. Da cui, fra l’altro, non ha nemmeno voglia di tornare.
Storie diverse, accomunate dal percorso: il potere dà alla testa se non è gestito con logica. Se esibito con prepotenza. Musumeci è il “fascista perbene” che molti dei siciliani hanno scelto per la sua indole di persone onesta e senza macchia. Per lo spiccato senso delle istituzioni. Perché ha sempre tenuto la schiena dritta, anche sui temi più molesti (è stato presidente della commissione Antimafia). Oggi, però, non riesce più a fare da collante. Ha cominciato a dividere, anziché unire. A spararla ogni giorno più grossa. Persino la Lega, che sembrava orientata a concedergli una chance, federandosi con il suo movimento, ci sta riflettendo. Guai, Nello, a uscire dal cono d’ombra di Salvini. Guai. La miglior risposta sarebbe il pragmatismo. Dire una parola sui conti che non tornano. Affrontare non una, ma mille emergenze insieme. Tornare a occuparsi – finalmente – di Sicilia.