Il popolo delle “sardine” – un movimento spontaneo che in piazza Verdi, a Palermo, ha portato migliaia di siciliani – è l’ultimo esperimento di società civile in un contesto in cui l’unica assenza che fa rumore è quella della politica. Una politica che resta incapace di fare proprio, utilizzandolo di conseguenza, un sentimento condiviso che dal web si sposta nelle piazze. Che ripudia le intolleranze, ed esalta le differenze. Che trova riparo dal razzismo, e apre all’integrazione. “L’idea del movimento inteso come forza catalizzatrice di pensieri e azioni è molto importante – esordisce Agnese Ciulla, ex assessore alla Cittadinanza del comune di Palermo – ma credo che in questo momento in Italia manchi una forza politica e partitica in grado di dare una sintesi a quei valori e a quelle scelte legate ai diritti umani e alla solidarietà”. Come a dire: vanno bene le sardine, ma non bastano.
La Ciulla è stata protagonista nella stagione delle “invasioni barbariche”. E’ stata la tutrice di 900 giovani migranti, che si sono stretti nel suo abbraccio per tornare a sperare nel futuro. Da questa esperienza nella giunta di Leoluca Orlando, terminata nel 2017, prende spunto il libro scritto a quattro mani con Alessandra Turrisi: si intitola “La grande madre”. “Anche se – racconta la Ciulla, con grande umiltà – io non sono stata una buona tutrice. Avere 900 ragazzi è come non averne nessuno. I rapporti sono stati marginali. E’ per questo che abbiamo avuto un’intuizione: creare il primo albo dei tutori. Perché la tutela non rimanesse soltanto sulla carta, ma fosse qualcosa di reale”.
Anche Palermo, dopo Bologna e Modena, non si lega. Fa più rumore la voce di questo movimento che si professa apartitico o le posizioni sovraniste e populiste, arroccate al concetto che bisogna fermare l’invasione?
“Va bene qualunque cosa che possa stimolare un pensiero che sia anche critico, di volontà, di attivazione. Questo non significa che qualche partito politico debba metterci il cappello. Anche perché un pensiero politico forte in Italia manca”.
Il sindaco Orlando e la sua giunta, però, sono scesi in piazza al fianco delle sardine. Dicono di condividerne i valori e di averli fatti propri nell’azione di governo.
“Attenzione, però. I cambiamenti non avvengono da un giorno all’altro. Ci sono dei segnali che danno la possibilità di attivare un dibattito. Ma un sindaco o una sindaca, da soli, non possono cambiare le sorti di una città. Semmai, possono facilitare dei processi. Ma siamo sempre lì. Da soli non andiamo da nessuna parte. Ecco che torniamo all’esempio delle sardine: il tema della partecipazione – che non sia legato a un singolo evento, ma a un processo vero e proprio – passa dalla condivisione con i cittadini. Qual è l’azione? Dove si può attivare? Un sindaco non ha la bacchetta magica”.
Palermo è pronta per questo cambiamento? Alla sensibilità mostrata in alcune circostanze, fanno da contraltare episodi di criminalità, comportamenti spesso insani e strafottenti. E’ come se la città viaggiasse a due velocità.
“Palermo è una città complessa, che conosce il dolore, le fatiche, le migrazioni sia in arrivo che in uscita. E’ una città che può narrare ed essere interprete di un movimento. Non è una città modello, ma può raccontare ed essere parte di una voglia di cambiamento che rimetta i diritti al centro dell’agenda politica. E’ una città a tante velocità. E a tante lentezze. Ma questo non significa che non debba provare ad alzare il tiro e lo sguardo”.
E la politica come può intervenire?
“Credo che il ruolo della politica, a fronte della consapevolezza dei problemi, sia quello di costruire una cornice e una visione di sviluppo diversi. Se vogliamo provare ad attivare un cambiamento nei pensieri delle persone, nelle idee, nella volontà, non possiamo fermarci al “qui e ora”. Non dobbiamo raccontare cosa succederà domani, ma fra dieci, venti o trent’anni. La politica dovrebbe facilitare questo processo. Possiamo intraprendere un percorso di cambiamento se riusciamo a fissare un orizzonte. Ma, come le dicevo all’inizio, credo che manchi un impulso. Non capiamo ancora dove stiamo andando”.
Lei definì “decreto povertà” quello che per Salvini era il “decreto sicurezza”. Il ministro Lamorgese ha deciso di apportare delle modifiche. Sul tema dei migranti c’è un cambio di passo fra i due governi Conte?
“Sapevamo che gli impatti li avremmo visti dopo qualche tempo. E lentamente si vanno verificando. C’è un aumento della clandestinità: non perché diventino clandestini i migranti, ma perché aumentano le difficoltà ad avere un rapporto, alla luce del sole, con tutte le persone che vivono in Italia, perché lentamente vanno perdendo i diritti. E i diritti sono di tutti se tutti possono goderne. Il tema che si deve porre oggi il governo Conte, come priorità assoluta, è decidere cosa fare con tutte le persone che vivono in Italia: con quelle che hanno il permesso di soggiorno valido o in scadenza, ma pure con chi l’ha già perso ed è fuoriuscito dai percorsi di accoglienza. Assunto che non si fanno più rimpatri, che ne facciamo delle persone rimaste in Italia? L’impressione è che il decreto non abbia risolto i problemi, ma ne abbia creato altri. E’ un decreto insicurezza”.
Anche l’Europa non ci agevola il compito.
“Ma possiamo capire qual è la domanda che facciamo all’Europa? Cosa chiediamo? Soldi, spostamenti di persone, investimenti? Se riuscissimo a capire cosa fare con che vive in Italia, probabilmente sapremmo cosa chiedere all’Europa. Parlare di Ius soli è propaganda ricorrente. Il tema è: le persone che vivono in Italia che tipo di diritti possono avere? C’è un documento della Camera dei Deputati di maggio 2019 relativo agli investimenti che l’Europa fa coi migranti in Italia. Sono tanti soldi, ma noi cosa ne facciamo? E qui è logico tornare alla politica dei partiti, che oggi in Italia manca. Il risultato è che la gente non va più a votare. Non mi preoccupano quelli che votano Lega, ma quelli che restano a casa e il motivo per cui lo fanno”.
Parliamo del libro. Si chiama “La grande madre”.
“Raccontare ad Alessandra Turrisi quegli anni è stato un lavoro terapeutico. Le sono grata perché, assieme a me, ha avuto la capacità di costruirne l’ossatura. Sono orgogliosa della città che in quegli anni ha lavorato nell’emergenza”.
C’è dentro la sua storia.
“Non è un libro che parla di me. Io sono una persona che ha fatto il proprio dovere da assessore, per il ruolo istituzionale che ricoprivo. Ma ho avuto la fortuna di avere intorno persone – anche dentro altre istituzioni come il tribunale dei minorenni, il giudice tutelare, le procure minorili, l’università – che hanno condiviso con me la consapevolezza di dover lavorare insieme. O non saremmo andati da nessuna parte. Il libro racconta questo sistema che si è generato da una marea che stava per diventare un’emergenza. E’ la narrazione di storie di persone e storie della città che in un determinato periodo di tempo ha attivato tutte le risorse possibili per riconoscere la dignità di ognuno”.
Lei aveva 900 ragazzi sotto la sua ala protettiva. Di questi, quanti ne conosce?
“Ne ho conosciuto una percentuale minima. Oggi, a distanza di tempo, scopro storie di ragazzi e ragazze, anche molto belle, di cui ero tutrice. Io, come rappresentante delle istituzioni, ho cercato di dare degli strumenti, di riunire attorno a un tavolo tutti i protagonisti che potevano concorrere a migliorare le condizioni. Laddove è stato necessario, abbiamo mandato i controlli e chiuso comunità, per alimentare un lavoro che non servisse a fare business”.