Il bosco vero e il bosco finto, il bosco vivo e il bosco morto. Si fronteggeranno a pochi metri di distanza, speculari l’un l’altro, loro che erano lontani, anzi lontanissimi, millecinquecento chilometri o poco più, appena pochi mesi fa. Accadrà a Siracusa per le recite de Le troiane di Euripide (debutto il 10 maggio), uno dei tre spettacoli del cartellone 2019 dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Il bosco vero è quello che sta dietro il teatro greco aretuseo, sul colle Temenite, a fare da fondale naturale alla scena, quei pini mediterranei e quei cipressi che impennacchiano la cornice inferiore della cavea con il loro verde ora fermo, ora ondeggiante; il bosco finto sono oltre cento tronchi che costituiranno la scenografia dello spettacolo, arrivati dal Friuli, parte minima di quel che resta degli alberi che la disastrosa tempesta «Adrian» che si abbattè sulla Carnia a fine ottobre, lo scorso anno, fece fuori con una violenza che lo stesso uomo, che pure per decenni ha bistrattato quelle zone, non si aspettava tanto da restarne, con terrore reale, ipocritamente stupefatto.
Dovrebbero essere rimossi tutti, in Carnia, quei tronchi morti che oggi fanno suonare, su quel territorio, un ulteriore allarme geologico, perché in gran parte stanno già marcendo impedendo a quelli ancora in vita di crescere e costituiscono comunque un ostacolo al lento ma progressivo progredire di quell’habitat. Intanto, ecco questo piccolo esercito di involucri di cortecce e anime di legno arrivato a Siracusa per volontà dell’architetto Stefano Boeri, archistar italiane tra le più note e celebrate al mondo, che l’Istituto Nazionale del Dramma Antico ha chiamato al debutto come scenografo su un palcoscenico inusuale come quello del millenario teatro greco, roba da far tremare le vene ai polsi. Niente paura: per lo spettacolo diretto da Muriel Mayette-Holz, protagonista Maddalena Crippa, Boeri sembra aver avuto l’idea vincente, quella che fa di un messaggio ambientale un monito alla scelleratezza dell’uomo, nemico di se stesso sia quando scende in guerra (Le troiane furono scritte da Euripide durante quella del Peloponneso) che quando non si cura dell’habitat che lo ospita, anzi lo disprezza violentandone i connotati. Manda in pezzi, insomma, la sua stessa casa.
Il tema di Boeri – che come tutti gli architetti di genio coltiva utopie e poi le realizza in progetti – è stato spesso quello dell’ambiente: basti pensare al «bosco verticale» di Milano, le due torri residenziali che hanno rappresentato nel centro della metropoli, vicino a Porta Garibaldi, un simbolo di riforestazione urbana con quei balconi-giardino, quegli alberi, quelle piante che occuperebbero in orizzontale un appezzamento di ventimila metri quadri e che invece, dall’alto in basso, non sono soltanto un colpo d’occhio, il frutto di un capriccio creativo, ma stanno ogni giorno a far da sentinelle persino allo smog, a quelle polveri sottili che minacciano il clima del capoluogo lombardo e la salute dei suoi abitanti.
Qui, invece, nella città più carica di storia della Sicilia orientale, i tronchi inerti della Carnia lanciano un messaggio più forte, quella di una morte che può rigenerarsi in vita nuova, non solo artistica ma anche industriale, commerciale e, perché no, di bellezza. A farli arrivare a Siracusa infatti, impresa tutt’altro che facile – e pure qui, Boeri, da architetto stavolta pragmatico ha scovato la soluzione – è stato un asse Friuli-Sicilia, quello della filiera degli industriali del legno, così che gli alberi del bosco morto del Nord diventeranno, finite le repliche dello spettacolo, materiale per le falegnamerie siciliane. C’è di più: a memoria di quel disastro ecologico, alcune piantine di leccio sempre provenienti dal Friuli saranno collocate in ville e giardini pubblici siracusani, una sodalità che sembra evocare, in piccolo, quella che, 43 anni fa, la Sicilia colpita appena otto anni prima dal disastro del Belice manifestò ai friulani di Gemona e degli altri paesi colpiti dal terremoto del ’76.
Doppia lettura per le Troiane, dunque, la tragedia di chi si vede scippato dalle proprie radici, radici umane e radici naturali: da un lato le disgraziate schiave di guerra di Euripide, vedove, madri sfortunate, profughe, dall’altro il «bosco morto», nel quale queste donne si aggireranno, quei tronchi sciagurati, quegli alberi ormai senza vita che, tornati a una vita fittizia quale quella della scena, reclamano per quelli che sono sopravvissuti, un destino di vita vera ancora sulle proprie radici, nella propria terra.