Ma chi si presenta per il Pd in Sicilia alle prossime Europee? E chi li prende i voti? La lista compilata da Elly Schlein in vista delle consultazioni dell’8 e 9 giugno, non lascia spazio a dubbi: il partito è da ricostruire nel profondo. L’unico esponente della classe dirigente dem, che l’ex Caterina Chinnici si permise di escludere alla vigilia delle Regionali di un anno e mezzo fa, è Giuseppe Lupo. Un politico e un signore. Che ha sopportato le ingiurie nei suoi confronti, è uscito indenne da un processo per corruzione e prova a riappropriarsi del ruolo che gli spetta. Alle sue spalle, però, il nulla. Basti considerare che la capolista Schlein non è siciliana, e che Lidia Tilotta e Pietro Bartolo, entrambi siculi, si proclamano indipendenti sul nascere. Resta l’avvocato messinese Maria Flavia Timbro, al primo appuntamento elettorale di un certo calibro, dopo aver trascorso un annetto a Montecitorio in seguito alla scomparsa di Guglielmo Epifani (ex leader della Cgil). Faceva parte del gruppo Liberi e Uguali.
Anche a volerci vedere qualcosa di nuovo, in questo Pd risultano maggiori le anomalie. Prima fra tutti, l’assenza di classe dirigente. Il segretario Anthony Barbagallo aveva fatto anche troppo, venendo eletto all’Ars e alla Camera dei Deputati. Ha dovuto dimettersi da Palazzo dei Normanni. Ma anche alle Politiche qualche problema era venuto al pettine, quando Antonello Cracolici, storico rappresentante della sinistra siciliana, fece un passo di lato per denunciare il proliferare dei papi stranieri (come capolista al Senato fu indicata l’ex sindacalista Annamaria Furlan, ligure, poi eletta). Per queste Europee il problema si ripropone: Elly, a parte Lupo, non ha ritenuto che nessun altro potesse rappresentare il partito nell’impegnativa sfida di Bruxelles. Le risorse sono finite.
Questa considerazione, va da sé, include il rispetto assoluto per alcune delle personalità proposte. Volutamente avulse rispetto alle dinamiche della politica. Lidia Tilotta, vicecaporedattore della Tgr, l’anno scorso ha vinto il premio di ‘Giornalista della Pace’. Motivazione: “Per il coraggio con cui racconta e fa conoscere storie di umanità che chiedono pace e per l’amore con il quale si avvicina alle tante persone molte volte abbandonate dalla grande informazione”. Una carriera rispettabilissima, ma che non c’entra con le vicende del primo partito d’opposizione, il quale non s’è mai ripreso dalle ultime avarie. Anzi, Tilotta, al suo debutto nel grande circus, ci ha subito tenuto a precisarlo: “La proposta di candidatura, da indipendente, che è stata fatta a me come a tanti altri, dimostra che si vuole cogliere l’opportunità dell’apertura a mondi ed esperienze diversi”. Dicono tutti così…
In realtà il Pd ha dei problemi belli grossi per convincere la gente a starci. Anche Pietro Bartolo, che la prima volta si candidò da indipendente, qualche anno dopo ha preso la “cittadinanza”. Non per l’azione sfiancante dei “padroni delle tessere”, quelli che hanno imperversato in Sicilia lasciando soltanto correnti e macerie (ricordate le crociate con i renziani, prima della nascita di Italia Viva?). Bensì per le parole di Elly Schlein sul Memorandum con la Libia. E nonostante i dissapori, espressi pubblicamente, nei confronti della segreteria regionale: “C’è stato un momento di riflessione da parte mia perché pensavo che i miei cinque anni di lavoro intenso venissero valorizzati. Ho lavorato seguendo le indicazioni del partito e mi aspettavo una attenzione particolare”. Dice di non riferirsi alla posizione in lista, più bassa rispetto alle attese, ma ad altro. Lui e Barbagallo si sono ricompattati in extremis, in tempo utile per le foto di rito. Con la Tilotta, invece, c’è un’antica frequentazione e stima: hanno scritto un libro insieme, nel 2016, si intitola “Lacrime di Sale” e parla dell’esperienza in prima linea del medico di Lampedusa. Protagonista della vita dell’isola delle Pelagie finché la politica non l’ha strappato alla cura dei migranti.
Un altro che partecipa a questa competizione da candidato è il deputato Antonio Nicita, che sta battendo freneticamente il Siracusano. Comparve per la prima volta alla vigilia delle Politiche, pur non avendo mai avuto contatti con il partito a livello regionale (bensì un’amicizia di lungo corso con l’ex segretario Enrico Letta). Di lui si diceva che fosse siciliano soltanto di nascita – avendo studiato nelle università di tutto il mondo – ma anche figlio d’arte (il padre, Santi, è stato presidente della Regione siciliana in quota DC). I quasi due anni dall’elezione gli hanno fatto maturare un credito nei confronti del Partito Democratico, almeno a livello locale; e oggi Nicita, che stenta a scaldare i cuori, resta comunque la punta di diamante del gruppo. Ha la tessera e gode del diritto di rappresentanza a ogni livello. Chissà se col sistema delle preferenze, in cui serve a guadagnarsi i voti a mani nude, riuscirà a passare all’incasso.
Il partito, per il resto, è un esemplare raffazzonato, con troppe sconfitte ancora da digerire. Sembra aver perso la capacità di parlare agli elettori di sinistra, figurarsi agli altri. Non è stato capace, in sette anni di opposizione all’Ars – prima con Musumeci e dopo con Schifani – di intestarsi una battaglia di valori o di principi, ad esempio sulla questione morale o sugli sperperi di palazzo, che richiedevano una presa di posizione netta, inflessibile. Non l’ha fatto Chinnici, quando era tra loro; non l’ha fatto Bartolo; e tanto meno Nicita, un neofita di questa regione. Il Pd, nel migliore dei casi, è un soggetto muto, un attore non protagonista, che sventola la propria bandiera su una Sicilia derelitta che non riesce neppure ad abbracciare la speranza. Figurarsi la rassegnazione. Queste elezioni Europee che non prevedono alleanze – né con il Movimento 5 Stelle né con De Luca (citando il prossimo quadro per le regionali) – potranno fungere da check-up sul suo precario stato di salute.