All’indomani c’è spazio solo per le macerie. Davide Faraone non è più il segretario regionale del Partito Democratico. La Commissione nazionale di Garanzia ha annullato l’elezione dello scorso 13 dicembre, quando Faraone sollevò le braccia al cielo al termine di una maratona elettorale che vide il ritiro di Teresa Piccione, la sua unica competitor, prima dello striscione dell’ultimo chilometro. C’entravano qualcosa le regole. La corrente zingarettiana, che tre mesi confluirà sul governatore del Lazio come futuro leader nazionale, imputava ai “renziani”, di cui Faraone è sempre stato fedele portabandiera, di aver violato alcune norme: il tesseramento, la mancata convocazione dei congressi provinciali, l’aver permesso ad altri esponenti politici – su tutti quelli di Sicilia Futura, ma anche alcuni forzisti – di “inquinare” la competizione.
Regolette e codicilli che hanno vanificato le primarie e che ora, dal suo pulpito, anche Faraone contesta: “Annullare il congresso significa annullare la democrazia. Farlo violando le regole è incredibile”. Secondo l’ex segretario, “la Commissione di Garanzia aveva già giudicato ricorsi sul congresso regionale. Con questa decisione il nuovo Pd cancella il principio giuridico del “Ne bis in idem” e per la prima volta le correnti si prendono anche le istituzioni di Garanzia. Hanno perso politicamente, la buttano sui ricorsi: avranno tutte le carte bollate che meritano”. Così ha sbattuto la porta, scegliendo di sospendersi dal partito.
Ma ci sono questioni che prescindono dalla schiavitù dei codici. E’ la sostanza della politica, di una lotta intestina che va avanti da mesi, per non dire anni. Quella che ha messo di fronte “renziani” e resto del Mondo. Non si sopportano, non si sono mai sopportati. Se ne sono dette di ogni, al diavolo il politichese. Non sono mai stati pronti ad accettarsi reciprocamente, a turarsi il naso, a riconoscersi, nemmeno fra vincitori e vinti. I tifosi di Zingaretti – tra i più accaniti ci sono il capogruppo all’Ars Giuseppe Lupo, l’ex assessore Cracolici, il decano Crisafulli – non hanno mai fatto mistero che l’unica soluzione per ripartire sarebbe stato detronizzare il segretario. Faraone, dopo aver offerto la pace con la presidenza del partito siciliano – ma si è visto sbattere le porte in faccia – ha fatto da sé. Si è buttato per strada, s’è messo in marcia (letteralmente, lunedì scorso ha percorso la Ragusa-Catania, 90 km, per denunciare le nefandezze dei cantieri), ha esplorato le discariche dismesse e mai bonificate, denunciato il degrado dei siti archeologici. Si è mosso, più o meno da solo.
E’ anche salito a bordo della Sea Watch, una manovra “estrema” che far i suoi detrattori ha suscitato risolini e pochissima solidarietà. Lo hanno accusato di volersi mettere in mostra, di aspirare a qualche titolo di giornale. Persino – come nel caso di Gela alle Amministrative – di voler fare patti con il nemico: Forza Italia e Gianfranco Miccichè. Il commissario di strada – che fino a ieri ha sempre sottovalutato il severo giudizio della commissione (“Me ne frega pochissimo” aveva detto, intervistato anche da Buttanissima) – si è sentito solo ma sempre nel giusto. I suoi fedelissimi, appresa la decisione romana, sono esplosi. Già nella serata di venerdì un suo stretto collaboratore, sui social, aveva preannunciato lo strappo: “Dopo questa, il Pd non è più casa mia”. Sottinteso, neanche quella di Davide. Poi ha cancellato il post. Ma le stilettate no, di quelle c’è ancora traccia: “Preferite noi o la ditta?” con una foto di Piccione, Zingaretti, Lupo e Cracolici a corredo. Anche alcuni esponenti ufficiali del partito, come il deputato Miceli o il vice-segretario, anch’egli decaduto, Rubino hanno parlato di “vergogna” e “scelta scellerata”.
E poi c’è Fausto Raciti, l’ex segretario che per molti mesi ha rivestito l’incarico di “reggente dimissionario”, che ha provato a rigirare il coltello nella piaga. Dei rivali: “Questa era l’occasione che aspettavano e la ragione per cui secondo alcuni non si doveva celebrare il congresso regionale o comunque bisognava invalidarlo. Mi stupisce molto di più che si fingano preoccupati per la credibilità del Partito Democratico senza avere ritenuto di dire una parola sul fatto che Giuseppe Lupo continui a esercitare il ruolo di capogruppo in Regione nonostante le abbondanti ragioni politiche che avrebbero dovuto indurre almeno una riflessione sull’opportunità di uno spontaneo passo indietro”.
La decisione, più attesa di quanto non faccia intravedere la delusione, non è piaciuta per la tempistica, oltre che per la sostanza. Venerdì era il compleanno di Faraone e lui lo stava trascorrendo a Palermo, nel ricordo dei martiri di Via d’Amelio: “Farlo in un giorno speciale per la Sicilia mentre noi siamo a commemorare Paolo Borsellino dimostra una insensibilità politica che spaventa” ha sbottato il senatore. E si indigna, perché nessuno è stato come lui. E’ come se gli avessero voluto far pagare, con gli interessi, la sua voglia di diventare capopopolo: “Evidentemente al “nuovo Pd” danno fastidio le battaglie che io ho fatto, ultima delle quali la marcia tra Ragusa e Catania per attaccare il Governo nazionale. O la richiesta della mozione di sfiducia a Salvini contro il quale ho schierato il Pd siciliano a testa alta: io li ho sentiti con le mie orecchie gli insulti dei leghisti a Lampedusa, ci ho messo la faccia mentre altri stavano tranquilli nei loro palazzi romani”.
Sotto la cenere covavano sentimenti di rabbia. Che ora si trasformano in atti di ripicca: “Io appartengo al Partito Democratico. Se questo partito non è più democratico e cancella i risultati dei congressi, sospendo la mia iscrizione al Pd. Ma lavoro ancora più forte contro questo Governo che fa male all’Italia. E che fa tanto male alla Sicilia ed al Mezzogiorno”. Faraone potrà stare certo che la “ditta” e i “padroni delle tessere” non verranno a cercarlo. Che questa intifada rischia di lasciare sul campo morti e feriti. I “dem” si erano risollevati alle ultime Europee, dove il Pd aveva ripreso a veleggiare al 16,6% dopo elezioni sconfortanti. Ma la tregua non ha cancellato il rancore.
Le prospettive sono un paio: la scissione, che non potrà essere Faraone a guidare (ma Renzi, aspettando che un incendio divampi anche altrove); o un nuovo congresso, a cui il gruppo di riferimento dell’ex premier potrebbe misurarsi ancora, per arrivare alla conta. C’è già qualcuno, tipo il deputato regionale Nello Dipasquale, che invita Faraone – con il quale ha viaggiato a piedi sulla Ragusa-Catania – a ricandidarsi, pur avendo sostenuto Zingaretti al congresso nazionale: “Io non sono nessuno per giudicare gli altri, tanto meno gli organismi di partito. Se uno sta dentro un partito deve riconoscerne anche gli organismi – ha esordito l’ex sindaco di Ragusa -. A me dispiace che sia stata annullata l’elezione di Faraone, ritengo che lui abbia lavorato bene e questo è il motivo per cui ho appoggiato lui e non Teresa Piccione”.
“Non mi piace quando la politica passa ai tribunali di partito, io non li preferisco, ma vanno rispettati. Mi auguro che dopo questo momento di riflessione – ha aggiunto Dipasquale – Davide provi a ricandidarsi alla segreteria regionale perché ritengo che al momento non ci siano persone migliori di lui. Io ho votato per Zingaretti, in maniera convinta e determinata, sono uno zingarettiano, ma non mi riconosco in nessuna delle componenti nazionali. Non sono alle dipendenze né di Franceschini né di Orlando”. E se Faraone dovesse rinunciare all’idea? Dipasquale sfodera un colpo a effetto: “In quel caso comincerei a farci un pensierino io”. Venghino, siori, venghino. La campagna è appena cominciata.