E vabbè, Aretha è morta e io che avrei potuto vederla e ascoltarla me la sono persa. Colpa tua. Se c’è una cosa che non ti perdono è infatti quell’estate lì, l’estate del 1970 perché io ero a mare con mamma, libera ormai da impegni di scuola, in paese, e tu qui, in città, solo, ufficio e casa, casa e ufficio. E una sola “trasgressione” che coincideva poi con la tua passione per la musica: il Palermo Pop ’70. Io avevo 13 anni, appena finite le medie e prossimo al ginnasio. L’età giusta per potermi concedere quelle sere di pop&rock&jazz&rythm’n’blues allo stadio. Anche con te, non dico da solo.
Tu di anni ne avevi 43. Ma eri sempre ragazzino dentro. E un po’ folle, come sempre. E come un ragazzino e un uomo maturo un po’ folle, ti scegliesti una stoffa fiorata molto hippy e ti facesti fare una camicia da zio Arturo (che faceva il sarto e non il camiciaio ma che te la cucì lo stesso), mettesti un paio di jeans che credo non avessi mai messo, i sandali di cuoio e ti avventurasti alla prima serata non senza aver bussato prima al dirimpettaio (il professore Aronica, lo zio Pippo) e avergli chiesto “va bene così?”. E quello basito perché alla camicia da “figlio dei fiori” un po’ avanti con l’anagrafe avevi associato una ghirlandetta di fiori finti sulla testa, “quella che aveva tua madre nell’altarino dei morti”, mi dicesti.
“Va liévati sta cuosa ri ‘n’tiesta”, ordinò perentorio lo zio Pippo. Fu l’unico consiglio che seguisti. Poi andasti al “Pop ’70” con la tua camicia a fiori, i jeans e i sandali. E mi raccontasti di Duke Ellington e di Aretha Franklyn, leggendari, di Arthur Brown allontanato dal palco dalla forza pubblica perché si calò i pantaloni e rimase col pisello di fuori, di Angelo il biondino dei Ricchi e Poveri che svenne durante l’esibizione. Mi raccontasti anche che ballavi così tanto sugli spalti che l’occhio di bue a un certo punto ti illuminò ma non so se questo fosse vero. Io sbavavo di rabbia mentre raccontavi e un po’ sbavo ancora. No, non te la perdonerò mai, quell’estate del 1970. Ma a questo punto non tanto per non aver visto e ascoltato Aretha, quanto per non aver potuto condividere quella serata matta insieme con te, per non averti potuto vedere con quella camicia a fiori (che poi io ho indossato più volte), coi jeans e i sandali. Sono ancora arrabbiato, sappilo, avvocato Rizzo, ma ti amerò ugualmente, sempre.