Di titoli ne ha a cascata. E’ professore ordinario, docente di Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali, delegato del rettore al potenziamento dei servizi agli studenti e alle politiche relative al diritto allo studio ed è anche direttore del centro servizi del Sistema Museale d’Ateneo. E’ stato pure in lizza come tecnico del governo Musumeci per condurre l’Assessorato all’Agricoltura. Paolo Inglese, però, prima di tutto questo è uno studioso, un ricercatore, un appassionato di piante, soprattutto di alberi. “Sono un uomo che ha scelto questo mestiere per amore della ricerca e della didattica. Vesto la toga e amministrare l’educazione è un compito talmente importante che assume una dimensione mondiale in cui i tanto declamati privilegi delle cattedre nulla c’entrano”.

Una vita rivolta alla ricerca e, viste le stelle, non poteva essere diversamente. Nipote di quel Giuseppe Alessi che fu non solo primo presidente della Regione Siciliana ma anche il presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Paolo Inglese ha molto subito il fascino di quel nonno che considerava l’università come il luogo del massimo sapere. “Si laureò in giurisprudenza nel ’26 e, quando iniziai io i miei studi, mi regalò un vestito blu, un ombrello e una borsa – racconta -. Per lui il massimo successo possibile non era fare politica, ma fare ciò che faccio io. Per questo bisognava tenere un dress code in quei luoghi. All’apice della sua fama nazionale, accettò l’incarico della Treccani. Per amore del sapere, per amore della cultura”.

Un mestiere, il suo, molto più di un mestiere che affonda le sue radici sin da bambino, quando gli regalarono un libro sugli alberi delle foreste. “Sognavo di girare il mondo con la Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, e per un periodo l’ho anche fatto – prosegue Inglese -. Io e questo mestiere ci siamo amati subito. Volevo fare cose concrete per i paesi in via di sviluppo. Non me ne fregava nulla di vestire i panni dell’universitario staccato dal resto del mondo. Pensavo che la Fao fosse il massimo possibile, e lo era e lo è. Avevo un ufficio a Roma, di fronte alle terme di Caracalla. Era un luogo di pura ebrezza”.

Poi la svolta, il ruolo all’università, la ricerca, il rapporto con gli studenti. “Trovo sia un privilegio assoluto avere a che fare con giovani per tutta la vita – spiega il prof -. È un allenamento mentale che ti riporta sempre e di continuo ad avere consapevolezza dei modi di vivere. Penso ai miei figli che non studiano a Palermo e io non vorrei mai che un mio collega mentisse ai miei figli. Non si può mentire ai 18enni. Non puoi imbrogliare il futuro. Io credo che l’università stia vivendo un momento fortunato, ma questo ci obbliga a migliorare, a fare di più. Non c’è più l’insularità a difenderci. Oggi va via un sacco di gente. E per noi è una sfida farli restare. Per questo il mio sogno nel cassetto è che pensare in grande, avere ambizioni, significhi restare qua. Voglio fare il mio mestiere nel modo in cui lo immaginavano mio nonno e mio padre. Voglio farlo con forza, onestà e rettitudine servendo le istituzioni in modo ciceroniano”.

Ecco perché lui e la politica non si incontreranno fin quando non sarà per sempre. “Delle due l’una – afferma Inglese -. Il capitolo politica è un capitolo aperto nella misura in cui ad oggi non posso fare politica. Farei un passo verso questo mondo se non in una prospettiva di cambio radicale della mia vita. A 57 anni, se avessi lasciato l’università, lo avrei fatto per sempre. Non ci sono stati i presupposti. Il politico è un servitore delle istituzioni e io avrei fatto questo nel pieno senso di ciò che questo significa. Non avrei mai accettato di fare il tecnico. Fare assessore è politica pura, nient’altro”.

Politica pura che, ad esempio, nella sua città andrebbe vissuta affrontando molti nodi, come quello del verde. “Un problema che non sarà mai risolto se non si affronterà il nodo della Favorita – conclude -. Ritengo sbagliato che sia riserva naturale, neppure Monte Pellegrino dovrebbe esserlo. C’è una totale assenza di progettualità. Se qualcuno mi dice che l’effetto positivo di 40 anni di riserva è l’assenza di case io gli rispondo che è un dice bugie. La tutela dei giardini storici, che non sono giardini spontanei, deve necessariamente passare da un progetto, deve essere frutto di ricerca e cultura. Come l’Orto Botanico”. Quell’orto, tanto amato da Giachery, che di cultura è fortemente impregnato.