Ora che Papa Francesco ha scompaginato le carte a modo suo ed è quasi assurto alla categoria dei filoputiniani per aver fatto notare che “l’abbaiare della Nato alle porte della Russia” non poteva restare senza conseguenze, bisognerebbe fare tutti una riflessione sulla prevalenza dell’inutile, “il Banal Grande” che è segno distintivo di questi tempi travagliati.
E poiché l’inutilità è “lo svantaggio implicito nel superfluo”, lo dice il dizionario, bisognerebbe ripensare alle sottigliezze di Aldo Moro che amava marcare la differenza tra semplificare e banalizzare. “Semplificare significa togliere consapevolmente il superfluo; banalizzare significa togliere inconsapevolmente l’essenziale”, ricordava Aldo Moro. Il quale, però, era leader della politica in un’altra Italia, un‘era geologica fa, quando nelle scuole si faceva ancora il riassunto per imparare ad andare al nocciolo della questione. Un esercizio di sintesi nel segno della “consecutio temporum”, e quindi della logica, che nulla ha a che vedere con l’ammasso di analisi senza capo né coda in voga oggi. Vacuità delle vacuità.
A scuola, dopo aver smesso di fare il riassunto, si è passati all’abolizione dello studio della geografia e poi, pian piano, sono state messe via anche la storia e la storia dell’arte. Con l’aggravante, per dire, che quest’ultima corrisponde al fatto che l’Italia è il paese con il più vasto patrimonio di beni artistici del pianeta.
I risultati di queste politiche scolastiche sono sotto gli occhi di tutti. Senza volere per questo rimpiangere la formazione, soprattutto delle élite, ideata dal filosofo siciliano Giovanni Gentile quando era ministro di Mussolini. Ma tant’è.
Secondo i dati Ocse figuriamo al quarto posto al mondo, dopo Indonesia, Turchia e Cile per incidenza di analfabeti funzionali, adulti incapaci di comprendere un testo o un’informazione a fronte della scolarizzazione acquisita. E abbiamo l’esempio a caso di ministri e viceministri agli Affari esteri che collocano il dittatore cileno Pinochet in Venezuela, chiamano “Ping”, che non è un diminutivo, il presidente cinese Xi Xinping e mandano “abbracci agli amici libici” a Beirut, città che si trova in Libano, Medio Oriente, e non in Libia, Nord Africa.
A ciascuno il suo. I russi hanno Sergej Lavrov, noi abbiamo Gigino Di Maio. Non è una gara di simpatia, è un fatto oggettivo. Dite voi chi sia più attendibile nel ruolo che riveste. Considerate come Lavrov si sia espresso con crudele ironia sul suo pari grado italiano e sulla sua “idea di diplomazia, che è viaggi a vuoto in giro per il mondo e degustare piatti esotici a ricevimenti di gala”. Considerate pure che Gigino Di Maio lo aveva stuzzicato. Aveva definito in tv Putin “un animale atroce”, anche se forse voleva dire “feroce”.
A proposito di quella vecchia volpe di Lavrov, grande è la canea che si è scatenata dopo la sua non proprio stringata intervista a Zona Bianca, talk show di Mediaset condotto da Giuseppe Brindisi. Che da giornalista è comprensibilmente soddisfatto dello scoop realizzato dalla sua trasmissione, la prima tv in Europa a far parlare il politico russo forse più vicino a Putin. Anche se bastonato da molti opinionisti del mainstream (di certo non invidiosi) per non avere azzannato ai polpacci l’ospite invitato in studio, il conduttore di Zona bianca non ha arretrato di un centimetro. Non concorda con Lavrov, ma difende la libertà di diffondere il punto di vista russo sulla guerra. Orgoglioso di un’intervista che rimarrà comunque nella storia della televisione italiana e che ha fatto il giro del mondo.
Perché perfino gli israeliani hanno convocato l’ambasciatore russo a Tel Aviv in seguito ai “commenti imperdonabili, da errore storico” di Lavrov. Il quale, interrogato sulla famigerata componente nazista presente in Ucraina, ha azzardato un paragone “oltraggioso” tra l’ebreo presidente Zelensky e il presunto ebreo Adolf Hitler. Dimentichi, gli israeliani, della memoria infinita del web. Basta una ricerca minima per scoprire che anche all’autorevole quotidiano filogovernativo The Jerusalem Post, il più diffuso in lingua inglese in Israele, nell’agosto 2019 capitava di pubblicare un articolo sulle “radici Jewish” di Hitler. Che poi è una controversa teoria dibattuta da decenni tra storici e scienziati. Una sfilza di informazioni inanellate a formare entropia. Da catalogare più nel “banalizzare” teorizzato da Aldo Moro che nella “banalità del male” descritta da Hannah Arendt.
“Insopportabile spot da propaganda di guerra anti Ucraina”, ha tuonato l’apparentemente mite, democratico segretario Enrico Letta, elmetto e baionetta con insegne ucraine indosso dal giorno dell’ingresso delle truppe russe in Ucraina. Si è chiesto se l’incontro con Lavrov non sia stato “un’onta per l’Italia intera”. E ha chiesto che i termini dell’intervista-scandalo venissero approfonditi, sottolineando che “l’Italia sta dalla parte degli aggrediti e non dalla parte di un popolo aggressore”. Ci mancherebbe. Un’ovvietà che ci ricordano ogni giorno, più volte al giorno. E’ l’inizio di tutto, “hic et nunc”. Altro che il contesto a cui fa riferimento il Sommo Pontefice. Mica ci volteremo dall’altra parte.
Kiev non è la Belgrado del marzo 1999, quando Sergio Mattarella, attuale capo dello Stato era vicepresidente del consiglio del governo D’Alema. L’Ucraina non è l’Iraq, la Libia, la Siria, lo Yemen. Che neppure stanno in Europa. D’altra parte se in Italia sono stati cancellati perfino i corsi su Dostoevskij e la musica di Čajkovskij, geni della cultura russa dell’Ottocento, vissuti durante l’impero zarista, mica complici di Putin, che c’è di strano nel voler silenziare quell’antipatico di Lavrov, numero due della Federazione russa?
Il concetto di libertà di informazione espresso dal piddino Letta deve avere fatto presa sul presidente del Copasir Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia, il lato opposto dell’emiciclo parlamentare. Così Urso ha voluto comunicare le sue “preoccupazioni” per l’intervento televisivo di Lavrov, “per le modalità in cui è avvenuto e per la montagna di fake news che ha propinato”. Urso, che è pure giornalista di professione, vuole vederci chiaro. Ha previsto un’istruttoria. E’ in ballo la sicurezza della Repubblica.
Ma lo sdegno maggiore lo ha espresso il migliore tra noi, il presidente del consiglio Mario Draghi, che ha stigmatizzato “l’osceno comizio senza contraddittorio” che il ministro degli Esteri russo ha tenuto dal pulpito di una tv italiana. “Senza contraddittorio”. Una lezione di giornalismo al pacato, fin troppo pacato, Giuseppe Brindisi fatta da un banchiere esperto, oggi premier, che alla sua prima conferenza stampa di fine anno, nel dicembre 2021, ha raggiunto un primato mai visto. E’ stato applaudito dai giornalisti all’ingresso in sala, ancora prima di parlare.
E sarebbe fin troppo facile citare la “Storia della grandezza e della decadenza di Cesare Birotteau” di Honoré de Balzac quando narra dello “sguardo del banchiere, che ha qualcosa di quello degli avvoltoi e degli avvocati: è avido e indifferente, chiaro e scuro, brillante e cupo”. Ma Draghi è il presidente del Consiglio con la maggioranza forse più allargata della storia della Repubblica, governata a colpi di fiducia, e sa il fatto suo anche in materia di informazione. Di recente ha bacchettato l’ambasciatore russo a Roma, Sergej Razov per la querela al quotidiano storicamente più legato al gruppo Agnelli-Elkann che aveva pubblicato un articolo: “Guerra Ucraina-Russia: se uccidere Putin è l’unica via d’uscita”. Draghi ha ricordato all’ambasciatore della federazione russa “un Paese dove non c’è libertà di stampa” che da noi c’è ed è sancita dalla Costituzione. “Si sta molto meglio”, ha sottolineato. Ed è vero. In “Quelli della notte”, storico programma di Renzo Arbore, il “re dell’ovvio” Massimo Catalano avrebbe formulato un refrain lapalissiano di sicuro successo: “E’ meglio averla la libertà di stampa o non averla?”. Forse avrebbe chiesto pure se “Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?”.
Poi noi stiamo con gli aggrediti. E’ la premessa dovuta a qualsiasi narrazione sul conflitto Russia-Ucraina. Per questo invitiamo il presidente dell’Ucraina a parlare alle Camere riunite del Parlamento della Repubblica italiana.
Il terzo capo di Stato straniero invitato a Montecitorio. Prima di lui solo Juan Carlos, quando era re di Spagna e papa Wojtyla. Un onore ovviamente senza contraddittorio. Ci mancherebbe.
Forse sarebbe il caso di chiedere a Papa Francesco che per la pace si è detto più volte “disponibile a tutto, proprio tutto”, di recitare una preghiera per i catecumeni del nulla, i cantori del nostro banale quotidiano, gli esegeti del pensiero unico, quelli che hanno un talento innato per riconoscere ciò che è giusto da ciò che non lo è, quelli che del politicamente corretto hanno fatto virtù e professione. Di fede e di carriera.