Ora che qualcuno dei Cinque Stelle sarà spazzato via dalla rivoluzione di Super Mario, e che anche il Ministro per il Sud Peppe Provenzano – un’autentica sentinella dei rapporti Stato-Regione – sarà sacrificabile sull’altare del governo Draghi, anche per Nello Musumeci, a Roma, potrebbero aprirsi spazi di manovra interessanti. A patto che i membri dell’esecutivo regionale la smettano con il piagnisteo dei complotti e ritrovino una condotta autorevole, meno caciottara, che alcuni assessori, fin qui, non sono stati in grado di garantire. In ogni caso, comincia una fase nuova. Dove a una maggiore flessibilità sui temi (non sul Ponte, che ricompare nella bozza aggiornata del Recovery Plan siciliano), farà da contraltare un certo rigore su clausole e impegni economici fin qui assunti.

Difficilmente l’ex capo della Banca Centrale, dopo averci dato un’occhiata, potrà intenerirsi di fronte ai conti in disordine della Regione. E semmai a qualcuno venisse in mente di proporre una deroga rispetto alla scadenza dell’esercizio provvisorio, al fine di garantirsi un mese o due di galleggiamento (in attesa della parifica e dell’approvazione del nuovo Bilancio), farebbe meglio a garantirsi un piano-B. L’accordo Stato-Regione, sottoscritto da Conte e Musumeci, è e resta l’unico accordo di finanza pubblica che, coi dovuti sacrifici (in cambio della spalmatura di un deficit di quasi 2 miliardi), permetterà alla macchina di rimettersi in moto. Esige sobrietà e serietà per i prossimi dieci anni. Due qualità indifferibili, che vengono richieste allo stesso Draghi per tirare il Paese fuori dallo stagno politico, economico, sanitario e sociale in cui si è cacciato.

Questo non vuol dire “chiusura”, nella maniera più assoluta, e Musumeci potrà esaudire buona parte dei suoi desideri. In primis, quello di “un governo autorevole con il quale potere dialogare, un governo capace di sapere ascoltare e condividere le esigenze della mia terra”. Il governatore, all’Adnkronos, ha evidenziato la “necessità di un confronto senza pregiudizi sulle infrastrutture strategiche di cui la Sicilia ha estremo bisogno per diventare competitiva nel bacino mediterraneo”. Una pretesa giustificata da anni di totale abbandono da parte dello Stato, che passa innanzi tutto dalla “nomina di un commissario straordinario che, in deroga alle norme ordinarie, possa mettere in condizioni di essere utilizzabili alcune centinaia di chilometri di strade provinciali”. Una questione di cui Musumeci e Cancelleri, viceministro uscente, hanno dibattuto in lungo e in largo, senza mai arrivare al dunque. E’ andata un po’ meglio sul fronte dei commissari per l’emergenza: nelle ultime settimane, il governo centrale ha trovato in Raffaele Celia, figura cardine dell’Anas, colui che dovrebbe velocizzare l’iter per la realizzazione della Ragusa-Catania (sul modello Ponte Morandi).

Fra il presidente della Regione e il Mit, negli ultimi due anni e mezzo, non è corso buon sangue. Prima a causa del rapporto burrascoso con l’ex ministro Danilo Toninelli, definito dal governatore una “calamità naturale”. Poi per l’approdo di Cancelleri, sfidante di Musumeci alle ultime Regionali, grillino doc, che non ha mai smesso di megafonare, anche dagli uffici romani, le malefatte del centrodestra siciliano. I principi di “leale collaborazione istituzionale” sono spesso naufragati. Ma le infrastrutture restano dirimenti per il futuro dell’Isola, come dimostra l’immediata riscrittura della bozza del Recovery Plan in salsa siciliana: di certo non poteva mancare il Ponte sullo Stretto (le possibilità di accoglimento sono infinitesimali, essendo un’opera di oltre vent’anni fa), ma stavolta – è un segnale di buona volontà? – rispetto all’aeroporto di Milazzo, alla funivia Alcantara-Etna e alla cittadella del cinema di Termini Imerese, compare il completamento della rete stradale e autostradale, oltre al potenziamento delle ferrovie esistenti.

Poi c’è la questione economico-finanziaria. L’assessore Armao, dopo aver rinunciato all’amico “gialloverde” Giovanni Tria – che gli negò una completa spalmatura del disavanzo – non potrà più appoggiarsi al sottosegretario Alessio Villarosa, messinese a Cinque Stelle, con cui, nonostante la distanza ideologica, ha collaborato in modo proficuo; né col viceministro Antonio Misiani, vero front-office dell’ultimo negoziato. E fra i piddini più disponibili. Dovrà ricostruire la sua rete di contatti nei palazzi che contano. Dovrà trovare un’alternativa ai numerosi escamotage delle ultime sessioni di Bilancio, sempre mal giudicate dalla Corte dei Conti, e all’atto pratico assai inefficaci. La decisione di intingere alcune voci dell’ultima Finanziaria nei cosiddetti fondi strutturali – i soldi dell’Unione Europea destinati agli investimenti – ha portato a un rallentamento dell’iter e una farraginosità delle procedure che ha indisposto persino Peppe Provenzano: depositario della proposta di rimodulazione da parte della Regione, testimone della sua lentezza (“Nessuno dica che spetta a me sbloccare questi fondi, ancora non ci hanno mandato nulla…”), ma anche del mancato rispetto degli accordi: “Io non chiedo le dimissioni di Musumeci – ha detto Provenzano durante una visita a Palermo -. Chiedo soltanto che questa Regione faccia i conti con se stessa, e sia in grado di prospettare un progetto serio di riforme e di sostenibilità del bilancio”.

L’avvicendamento di ministri, viceministri e sottosegretari potrebbe sorridere a Musumeci e Armao, che cercheranno di concordare con lo Stato condizioni migliori e, perché no, l’attuazione di alcune norme statutarie che la Sicilia, a corrente alternata, rivendica (l’ultima proposta è trattenere il gettito dell’Iva: “Ci pagheremmo il disavanzo in cinque anni”, ha spiegato all’Ars il deputato di Attiva, Sergio Tancredi). Ma non dovranno ridursi a una richiesta d’elemosina. Qualche giorno fa, di fronte all’urlo disperato di decine di imprenditori, il governatore – fin qui incapace di attuare la “Finanziaria di guerra” dello scorso maggio – ha spedito la palla in tribuna: “So bene quello che patisce la vostra categoria e continuiamo a sollecitare il governo nazionale affinché acceleri nella erogazione di risorse alle imprese. E’ solo da Roma – ha precisato – che possono arrivare risposte risolutive in vostro aiuto e, come abbiamo sempre fatto, continueremo a far presente al governo nazionale la necessità di intervenire in maniera più veloce e robusta”.

Detto questo, la Regione nel prossimo biennio potrebbe ricevere un assist da Forza Italia, se qualcuno del partito di Berlusconi si ritrovasse coinvolto nella composizione del governo Draghi (Schifani?). I rapporti fra Nello e il Cav. sono ottimi, cordiali, collaudati. Grazie a Micciché, che garantisce un punto d’equilibrio immarcescibile; e allo stesso Armao, che vanta ottime relazioni per la presenza della compagna Giusi Bartolozzi alla Camera e per il feeling dichiarato con Antonio Tajani, vicepresidente azzurro. Appurato che Salvini, a meno di clamorosi ripensamenti, rimarrà tangente all’esecutivo, saranno gli azzurri la testa di ponte in un’area presidiata da tecnici e professori.

Ma ciò che dovrebbe maggiormente indurre alla fiducia è il discorso tenuto dall’ex governatore della Bce nel 2009, durante il convegno “Il Mezzogiorno e la politica economica in Italia”: “Affinché il Mezzogiorno diventi questione nazionale – disse all’epoca Mario Draghi – non retoricamente ma con ragionato pragmatismo, ogniqualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi”. Nessuno ha mai tenuto conto di queste differenze, sebbene in tanti le abbiano teorizzate. Che occorrano ricette specifiche è storia nota. Che un banchiere, prossimo a diventare presidente del Consiglio, riesca a realizzarle è tutto da vedere.