Magari adesso mancherà a Costanza Licata quello squillo di telefono o di campanello della porta di casa che è risuonato quando qualcuno voleva accedere all’archivio di Salvo, suo padre – giornalista, scrittore, drammaturgo – per cercare articoli, copioni, magari appunti, fotografie o altro materiale su cui scrivere un pezzo per un giornale o una tesi di laurea. Perché finora l’archivio di Salvo è stato custodito da Costanza a casa sua e tra poco si trasferirà in uno spazio che il Comune gli ha destinato ai Cantieri Culturali alla Zisa, nel “ridotto” del Cinema De Seta concesso all’Associazione Kleis di cui Costanza è l’anima assieme ad altri artisti suoi compagni di avventure teatrali, sodali nella vita e sulla scena.
Lei tira un respiro di sollievo ed è ovviamente felice che, ufficialità a parte, l’archivio paterno abbia finalmente una collocazione istituzionale, una sede comune, pubblica, che quell’assemblaggio di pagine e pagine sia condivisibile su richiesta. Gli si doveva, alla memoria di Salvo, e sarebbe bello che, una volta sistemate tutte le carte e il materiale iconografico, l’Archivio Licata fosse inaugurato il primo aprile quando cadranno i vent’anni dalla sua morte. Perché sono documenti importanti nella memoria di una città smemorata, dimentica per gran parte di un suo codice genetico e culturale non sempre condivisibile, spesso da non rimpiangere affatto ma necessario per comprenderla pure oggi, fossero passati anche cinquant’anni e più da quei fogli di giornale, da quelle pagine battute a macchina zeppe di personaggi autentici del tutto o solo in percentuale, inventati cioè, questi ultimi, ma asportati da un tronco di cronaca, di verità, di vita vissuta ed innestati in un sentire poetico.
Licata ha raccontato Palermo come nessun altro. Come nessun altro cronista, come nessun altro drammaturgo. Ha raccontato Palermo, non la “sua” Palermo che diventava “sua”, semmai, dopo che lui l’aveva scoperta, l’aveva fatta salire sul palcoscenico della cronaca al di là della cronaca stessa. La Palermo delle borgate, principalmente, quella che più amava, alla quale si sentiva più affine per origini, le borgate del cuore storico e quelle della periferia, dei margini, proprio come Resuttana dove era nato.
Nel primo ruolo, quello di giornalista – al “L’Ora” per tanti anni, poi al “Diario” e infine al “Giornale di Sicilia” – aveva abdicato a quel “vestito” di cui ogni cronista prima o poi s’ammanta, ché sì, sarà anche importante chiedersi il perché e il percome dei fatti, ma prima di soloneggiare sfoggiando un po’ di psicosociologia spiccia (e Salvo non ne faceva mai uso né inalberava frettolose interpretazioni), prima di ergersi a trinariciuto alfiere di una verità soltanto – per convinzione personale o per ideologia – Salvo la cronaca la annusava, fino in fondo, al di là di un superficiale olezzo, ne descriveva protagonisti e comprimari, non si limitava ad accontentarsi del “facciamo un seguito” come dicevano i “capi”, era fisiologico per lui il seguito, dovevi viverci dentro se volevi davvero capirlo, il contesto, un fatto era dentro il fatto stesso, nelle strade e nelle case, a volte il fatto macchiava d’inchiostro le pagine anche per settimane, fino a che non si esaurivano i particolari, fossero finanche apparentemente minimi.
Nel secondo ruolo, quello di scrittore e drammaturgo, l’innesto fu una fantasia, una vena poetica che non si smarcavano mai dal vero e nemmeno però erano realiste nella condiscendenza alla ruffianeria popolare, mostravano semmai, sempre senza sconti, nella nudità dei personaggi, ora trasognati ora incarogniti nel carattere, una lettura diversa da quella che occorreva affidare, talvolta con grande fretta, al proto in tipografia, un racconto non “in diretta” ma in controluce, non di rado ambivalente, una metafora ma non troppo criptica come quella di “Cagliostro dei buffoni” – per ancorarsi a un solo esempio – simbolo di una palermitanità rodomontesca e truffalda che Lollo Franco, al Biondo, diretto da Cursino Di Leo, espresse con magniloquenza stracciona. Era forse più naturale, anche con un certa velata cattiveria, irridere nella trasposizione scenica quel codice genetico e culturale, dagli esperimenti del cabaret a quelli del dramma vero e proprio, senza mai dimenticare una pietas che in Salvo albergava, nonostante certi saettanti giudizi all’acido prussico a cui, da buon palermitano doc, non rinunciava.
Un archivio saprà restituire tutto questo? Senza dubbio sarà un importante strumento documentale ma si sa che, tra fogli e righe, le carte a volte riservano sorprese e quel che vi sta scritto può far stringere inattese alleanze tra ieri e oggi, tra memoria e vita, aiutando la prima a capire l’altra.