Nel cosmo della letteratura italiana si consuma un fenomeno senza precedenti: che un politico donna, per di più di destra, conquisti le classifiche (e gli scaffali della Feltrinelli) e si lasci alle spalle fior di scrittori che, per dirla con Pietrangelo Buttafuoco, si credono depositari dell’egemonia culturale per eccellenza: quella di sinistra. Accade con Giorgia Meloni, che a poche settimane dall’uscita di ‘Io sono Giorgia’, ha venduto oltre 160 mila copie. E che l’altro giorno, accolta dallo stato maggiore di Fratelli d’Italia (e dal governatore Musumeci), ha presentato l’opera fra Taormina e Catania, dove il ‘libraio’ Buttafuoco – che ne ha viste parecchie – ha fatto gli onori di casa. “Io professionalmente sono nato col grande successo di ‘Nel nome della rosa’ di Umberto Eco, poi ho assistito al trionfo di ‘Il boss è solo’, il libro intervista di Biagi con Buscetta, e de ‘Il pendolo di Foucault’, riproposto da Eco. Tutta una serie di fenomeni editoriali che avevano una spiegazione”.

Anche il primato di ‘Io sono Giorgia’ ne ha una?

“Ci sono alcune cose che da sgamato libraio ho capito: innanzi tutto, che questo libro non è stato scritto da un ghostwriter, né ha avuto l’editing orientativo che di solito i grandi marchi fanno su operazioni del genere. Quella lì, col carattere che si ritrova, se l’è scritto da sola. Ha lasciato da parte le teorie, i teoremi, gli ideologismi, e ci ha messo dentro tanto di sé e della sua autenticità. E’ quello che il pubblico cercava”.

Che genere di pubblico?

“L’unico pubblico che compra i libri, cioè le donne. Sono state loro a farne un’icona. Sono andate alla ricerca della cifra dell’autenticità, e l’hanno ritrovata nella storia di una ragazza che ha fatto cose che altri hanno visto solo nella teoria. Il professor Letta non ha mai fatto il cameriere, il baby sitter, non ha mai vissuto quella dimensione che è comune alla maggior parte dei ragazzi”.

Anche Letta è in libreria…

“Un fior di titolato, di accademico. Uno che si fa forte della fanfara che l’editore Cairo gli organizza attraverso la trasmissione più chic. Ma sono certo che né io né lei ci ricordiamo il titolo del suo libro. Al contrario, nel libro della Meloni, ci sono elementi di semplicità che danno risalto alla proposta artistica. La reiterazione di ‘Io sono Giorgia’ è un meccanismo alla Andy Warhol”.

Lei ha parlato di nemesi, di sconfitta dell’egemonia culturale.

“Tutto nasce dal fatto che entro in Feltrinelli e vedo una scena che mi colpisce e mi fa sorridere. La Meloni prima in classifica e, terzo, niente meno che Michele Serra. Scherzando, tra me e me, mi sono detto: questa è la nemesi, è la sconfitta dell’egemonia culturale. Lo stand Feltrinelli fu protagonista della cagnara all’ultimo Salone del Libro (venne intonata Bella Ciao, di fronte alla presenza dell’autrice di un libro su Matteo Salvini, ndr), è una cattedrale del pensiero unico, del perbenismo. Il fatto che siano costretti a fare fatturato con un libro che manco vorrebbero leggere è molto divertente. E poi è spiazzante, perché si accorgono di una differenza: quello di sinistra mai e poi mai si avventurerà nel campo del nemico in termini di gusti, di scelte, di suggestioni. Invece nel libro della Meloni c’è un capitolo molto divertente legato al suo corredo musicale e di concetti rubati nel campo altrui. La cosa che mi sconvolge è questa libertà di scelta che altri non hanno”.

Ci faccia un esempio.

“A uno come Letta, l’idea che il grande Burri sia stato prigioniero degli americani in un campo di concentramento ruberebbe il sonno. Così come ritrovarsi davanti il saluto romano di Walter Chiari. Non ha questa leggerezza…”.

E’ in fissa con Letta?

“Ma poi pensi che destino infame: la prima volta è stato cacciato dal suo partito perché troppo democristiano, ora rischia di essere cacciato perché troppo sinistro”.

Essere donna si è rivelato un vantaggio – politicamente – per la Meloni?

“Ha il vantaggio, anche rispetto alla storia da cui proviene, di essere contemporanea al proprio tempo. Non soffre di torcicollo. Ha un linguaggio che la maggior parte delle persone capisce. Ma senza di lei, non credo che Fratelli d’Italia avrebbe registrato un tale successo. C’è un sentimento diffuso di destra, che è molto forte in Italia, persino maggioritario. Ma non ha i crismi del potere, del sistema. Il Pd, ad esempio, è il partito del sistema, la minoranza egemone. Dall’altro lato, però, non ha rappresentanza politica. La Meloni – nel solco di ciò che fecero Berlusconi prima e Salvini poi – ha la capacità rabdomantica di erigere un totem. Però c’è ancora molta strada da fare per arrivare alla costruzione di un gruppo dirigente”.

Questo sentimento di destra è diffuso anche in Sicilia?

“A lume di naso, direi di sì. La Sicilia ha una tradizione di destra di qualità, più di quanto non lo fosse a Roma. Catania era la pupilla degli occhi di Almirante. Le percentuali di voto del Movimento Sociale in Sicilia, negli anni ’70, erano importantissime. E poi ha prevalso il galantomismo, come in quasi tutto il Meridione”.

Perché?

“La Sicilia non aveva alcun istinto di torcicollo nostalgico: non ha vissuto la guerra civile, anzi ha vissuto l’esperienza nascosta e parallela della rivolta contro gli invasori americani. Non ha mai conosciuto l’odio politico, e questo ha permesso di avere nelle città e nei territori, personalità ben inserite nel tessuto sociale, che potevano dichiararsi tranquillamente di destra senza essere escluse. La Sicilia non ha conosciuto l’odio civile. Era ovvio e normale vedere insieme, e riconoscerli amici, esponenti del Partito Comunista e del Movimento Sociale. Se ci pensa, io e Claudio Fava politicamente (e culturalmente) siamo una coppia di fatto. E guardi quanta gente di sinistra ha votato per Musumeci alle ultime Regionali. Il voto trasversale è sempre stato naturale, mai traumatico”.

Chi è il primo politico siciliano di destra che le viene in mente? Per molti resta Musumeci.

“Uno che mi pare abbia un peso fondamentale, e che ha un ruolo forte in Fratelli d’Italia, è Raffaele Stancanelli. E’ un pensatore, uno di quelli che ragiona. Se analizza la vicenda di Stancanelli noterà in lui una radice che è sì quella del Movimento Sociale, ma ci ritroverà anche una certa finezza di ragionamento politico che ha il proprio acme in Rino Nicolosi, ad esempio. La Sicilia, fortunatamente, ha questa specificità. In un ragionamento politico, in un laboratorio, non puoi mai prescindere dall’esperienza di un Calogero Mannino. Le cose che a Roma e al Nord sembrano complicate, in Sicilia sono ovvie. Uno come Stancanelli, nel ragionamento, non potrà mai essere nemico dell’esperienza della Democrazia cristiana siciliana”.

Che futuro prevede per questo centrodestra?

“Devono evitare la sindrome monicelliana dei parenti serpenti. L’elettorato è compatto ed è unito. Io capisco che le dinamiche sono quelle di avere i nemici tra gli amici, ma è ovvio che uniti si vincono le battaglie elettorali. E’ una fase strana: non si capisce fino a che punto Silvio Berlusconi voglia giocare un ruolo, o quanti amici del giaguaro siano rimasti dentro Forza Italia: la delegazione nel governo non è stata decisa da Berlusconi, anzi è più una prosecuzione del Pd che non un’espressione del centrodestra”.