Fortuna che si chiamava già Daniel e dunque Daniele è venuto, di conseguenza, naturale. Pensa a quelli che si chiamano Bawa, ad esempio, e diventano Giuseppe. Daniel è scappato nove anni fa, coi due figli che erano quasi in fasce, non si sentiva più al sicuro, troppi morti, cristiani e musulmani, attacchi alle chiese e alle moschee. Uomo di fatica, al supermercato, la “simanàta” e quattro spicci in cambio dell’aiuto per riempire le sporte della spesa e due euro fissi per qualche consegna a domicilio quando i sacchetti sono troppi e pesanti. Arranca col carrello stracolmo tra i dislivelli delle vecchie basole ma è un omone scuro che sembra uscito dalla palestra e così gran fatica pare non faccia. Un amico gli aveva procurato anche il turno di notte in un garage della zona ma alla fine ha rinunciato perché preferisce aiutare la moglie che va a servizio dalle otto alle due. Gli dispiace, quello che è successo a Ballarò, perché è facile che la gente pensi che «siamo tutti uguali, invece non è così».
La Nigeria a Ballarò, i turchi, come li chiamano qui, tra gli autoctoni che hanno interrato il Kemonia e manco se lo immaginano com’è il panorama sul delta di un fiume immenso come quello lì, in Africa. Tutti turchi, basta una lieve ambratura della pelle, perché turchi sono anche gli indiani o quelli dello Sri Lanka, per intenderci. E i bambini, “turchicieddi”. Ha ragione Daniele, se si rischia di confondere le diverse etnie, figuriamoci se non è facile che i nigeriani vengano considerati tutta gente di malaffare, tutti dediti ad attività illecite come droga e prostituzione, affiliati a clan organizzati sul modello della mafia, riti di iniziazione, pene severe per chi sgarra e via sgranando il rosario criminale, come hanno mostrato i video della polizia. Quella malavita nera colpita nei giorni scorsi dal blitz che ha portato a tredici fermi, nell’operazione “No Fly Zone” che ha preso di mira il clan nigeriano “Eiye” ramificato in tutta Italia, assai potente a quanto sembra a Palermo.
Non tutti così, come dice pure Teresa che li ha ormai per il settanta per cento tra i clienti del suo negozietto, i nigeriani, «c’è chi fa il guardamacchine e chi fa il lavascale, chi ha trovato pure qualche posto di muratore perché sono bravi, intelligenti, tu gli insegni una cosa e subito la imparano, ce n’è uno che è diventato idraulico, un altro lo hanno chiamato “esterno” in un negozio per montare i parquet, insomma ce n’è tanti che si guadagnano il pane onestamente». Anche se, ammette, «qualcuno ca s’arranciunìa lo conosco pure».
Poi c’è la piccola malavita che fa presto a diventare affare, soldi, gerarchia, potere, terrore. Ogni tanto un blitz e le fondamenta tremano. Ma il controllo è difficile, capillare per quanto lo si voglia organizzare, l’ordinaria illegalità, la violazione quotidiana diventano norma al posto delle norme. Metti un sabato, a notte quasi fatta, in una via del quartiere, ad esempio: c’è una rissa violenta tra due gruppetti davanti ad un piccolo negozio chiuso, sei/sette persone in tutto, ad un certo momento uno dei litiganti impugna una bottiglia di birra, la rompe, ne fa un’arma da taglio e ferisce ad un braccio uno degli avversari, l’uomo perde sangue, viene caricato su una macchina che sgomma via mentre gli altri contendenti si dileguano, una donna con calma olimpica apre la saracinesca del negozio e con un secchio e uno straccio lava ogni traccia del litigio sul marciapiedi, ripone secchio e straccio, chiude la saracinesca e se ne va. Dopo pochi minuti, ogni intervento delle forze dell’ordine è tardivo e vano, restano silenziosi quattro lampeggianti.
«Non siamo tutti così», ripete Daniele. E’ vero. C’è lui che arranca col suo carrello tra il Carmine e San Francesco Saverio. C’è il fratello di sua moglie che s’è aperto un “buco” dove vende roba da mangiare – frittelle, tarallucci dentro sacchetti di cellophane, alette di pollo aromatizzate, frutta essiccata – e non è un’attività di copertura, giura, come quelle di tante saracinesche che aprono e chiudono a cadenza quindicinale tanto che i cartelli di sequestro si sovrappongono ormai l’uno sull’altro. C’è la ragazza – venticinque, ventisei anni al massimo – che ha trovato lavoro nell’ennesima parruccheria afro del quartiere e fortuna che la madre l’aiuta in casa perché ha tre figli che però la domenica lei trascina con sé, due per mano e uno “a tracolla” ed ha un fisico – nonostante le tre gravidanze – che avesse avuto sorte migliore l’avrebbero voluta, bella com’è, sulle passerelle d’alta moda. Marito? Non pervenuto. Forse è morto lì, nell’altro continente, forse è altrove, chissà.
Di contro, ci sono gli “stazionanti” della Porta (Sant’Agata), giovani, di un’eleganza quasi esibita nei loro giubbotti, jeans e sneakers alla moda (ma tarocchi), visi tirati, occhi spiritati, gambe pronte a scattare come fossero centometristi in attesa dello start, un fascio di nervi e di muscoli, telefonino incollato all’orecchio: il grande supermarket del “fumo”. Così come c’è chi ha preso le tradizioni ma anche il peggio della “palermitudine” proletaria: quelli che nelle sere d’estate si mettono a giocare a carte fuori dai bassi e se gli chiedi spazio per poter passare con l’auto, ad un minimo accenno di clacson, rispondono con tracotante strafottenza, in una cadenza linguistica che sembra rallentare i toni sincopati del loro parlare per uniformarli alla lentezza supponente del baccaglio.
Le cento anime della Nigeria (quasi un milione di kmq) in un fazzoletto di Palermo chiamato Albergheria, racchiuse nella parentesi colorata e folclorica di un mercato storico come Ballarò, difficili in una realtà difficile di suo: integrate sembra una parola grossa, quasi un’utopia, dirimpettaie più che conviventi, di mutuo soccorso quando ce n’è necessità, guardate in tralice quando l’innesto crea turbativa alla pianta originaria. Alla ricerca reciproca di un equilibrio quotidiano, difficile, certo, perché autoctoni e “turchi” sono comunque soggetti complessi.