La vicenda di Mario La Rocca, silurato dall’assessore Volo per aver “consumato” i cinque anni (il massimo consentito) a capo del dipartimento Pianificazione strategica dell’assessorato alla Salute, ha costretto la Regione a sondare il mercato alla ricerca di un sostituto all’altezza. Ma niente: nei gangli dell’amministrazione un altro La Rocca non esiste. Così è stato predisposto un bando per affidarsi a un ‘esterno’. Un po’ come accaduto qualche tempo fa al Dasoe (Attività sanitarie e Osservatorio epidemiologico), il dipartimento ‘gemello’, dove per qualche tempo – fino alle dimissioni per presunta incompatibilità con l’assessore Razza – era finito Francesco Bevere, calato da Roma.

Ma adesso, più dei nomi, conta la sostanza. E i fatti di questi giorni ci ricordano quanto sia difficile per la politica e la burocrazia entrare in simbiosi. Non ce l’ha fatta Musumeci, e non sembra riuscirci nemmeno Renato Schifani, che ha buttato la croce addosso a Maurizio Costa, direttore ad interim del dipartimento Energia (dal 10 febbraio appena), per il mancato completamento dei lavori al Castello Utveggio di Palermo. E’ solo l’ultimo caso, che conferma però la regola: tra sordi è diventato sempre più difficile parlarsi e collaborare. A voler analizzare da lontano i problemi di Mamma Regione c’è il rischio di perdersi. Ma facilitando la questione, si potrebbe sintetizzare così: non ci sono abbastanza dirigenti in grado di ricoprire – giuridicamente e a livello di competenze – le posizioni apicali dell’amministrazione.

Giuridicamente, solo in tre (su 800 circa) hanno le carte in regola. Si tratta dei cosiddetti dirigenti di seconda fascia, legittimati per legge. Gli altri, quelli di terza fascia, non potrebbero nemmeno. Le ultime indicazioni in tal senso arrivano dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha stoppato il ricorso di Salvatore Taormina contro il mancato rinnovo dell’incarico da dirigente generale al Dipartimento Finanze e Credito, stabilito dalla Corte d’Appello di Palermo. Eppure, sarà per la coperta troppo corta o per le spalle abbastanza coperte, da Palazzo d’Orleans continuano ad arrivare decisioni di segno contrario: a poche settimane di distanza dell’ultimo verdetto pestifero, il superburocrate in questione è stato nominato capo dipartimento delle Autonomie locali. In una regione normale, sarebbe uno scandalo. Qui al massimo se ne occuperà l’interrogazione parlamentare – coraggiosa ma isolata – del dem Nello Dipasquale, che ha chiesto la revoca dell’incarico: “Sono pronto ad adire le autorità competenti perché sia definita la legittimità di quanto sta accadendo. È fin troppo chiaro che la Regione attribuendo incarichi contro le norme vigenti si espone al rischio di nuovi ricorsi e al dubbio che gli atti non abbiano la legittimità che si richiede”.

La questione dei dirigenti di terza fascia, che esiste soltanto in Sicilia, da vent’anni non è mai stata sanata. Nonostante le richieste pressanti (ma neanche tanto) da parte di Palazzo Chigi, che nell’accordo firmato a gennaio 2021 da Conte e Musumeci aveva “imposto” il recepimento delle norme statali in materia di dirigenza pubblica, e la creazione contestuale di una sola fascia dirigenziale. Da questa anomalia si sviluppa il resto. Prendete la Sanità: mentre per quasi tutti i dipartimenti, anche se in maniera borderline, una soluzione è arrivata, per la Pianificazione strategica no. Colpa dei requisiti d’ammissione, sin troppo selettivi, che hanno costretto ad allargare la ricerca all’esterno.

Il “genio” dovrà avere “in aggiunta ai criteri previsti dalla normativa vigente (nazionale e regionale), l’ulteriore requisito di comprovata e documentata esperienza e capacità professionale in gestione amministrativa-contabile, programmazione, con particolare riferimento alla sanità territoriale e controllo del settore pubblico sanitario”. Requisito che sembrava possedere soltanto La Rocca, che però ha scelto di occuparsi di Beni culturali. L’indiziato speciale per salvare la sanità e l’assessore Volo – che in questo primo scorcio di legislatura ha vacillato di fronte alle questioni dei precari Covid e dei privati convenzionati – è Salvatore Iacolino, attuale commissario del Policlinico di Palermo. Un “esterno” che conosce benissimo il funzionamento della macchina.

Ma non sempre ci si può affidare ai miracoli. E non tutti possono vantare l’esperienza e il lignaggio dell’ex europarlamentare di Forza Italia (o di La Rocca). Bisognerebbe attrezzarsi per tempo. Cosa che non è mai accaduta. Così alcuni volti, seppur meritevoli, non cambiano mai: pur con un processo in corso, che la vede imputata per falso nell’ambito dell’inchiesta che coinvolge anche Razza, Maria Letizia di Liberti (ex capo del Dasoe), è stata confermata dirigente generale al Dipartimento Famiglia e Politiche sociali. Vincenzo Falgares è andato alla Programmazione. Carmelo Frittitta alle Attività Produttive. Salvatore Cocina alla Protezione civile. Immarcescibili. Così come Giovanni Bologna, attuale ragioniere generale, che qualche settimana fa, con il suo parere legale, è riuscito a smontare il decreto che affidava 3,7 milioni alla lussemburghese Absolute Blue per la realizzazione della seconda mostra fotografica a Cannes. Su quel decreto (poi ritirato in autotutela) c’era la firma di Calogero Franco Fazio, che all’epoca dei fatti era dirigente ad interim al Turismo, e che nell’ultima sfornata di nomine è stato escluso dalle posizioni apicali.

Da parte di Schifani, però, non sono giunti strali – almeno pubblicamente – nei suoi confronti. L’ira del presidente, in questi giorni, si è abbattuta sul povero Maurizio Costa, dopo aver colpito, a inizio legislatura, un altro responsabile dell’Energia, Gaetano Sciacca. In questo settore, fino a poco tempo fa, ha provato a resistere anche l’ing. Tuccio D’Urso, amatissimo da Musumeci, che nella parte finale della sua carriera, dopo la mancata proroga dell’età pensionabile (con pesantissimi atti d’accusa rivolti all’Assemblea regionale), è finito a dirigere la struttura commissariale anti-Covid in qualità di soggetto attuatore. Il suo allontanamento è stato fra le prime decisioni assunte dallo stesso Schifani. D’Urso, però, non tramonta mai ed è intervenuto anche sulle vicende del Castello Utveggio: “Mi sento sollevato! La maledizione del castello Utveggio ha un altro soggetto! Non è una novità che quel luogo porta una formidabile sfiga a tutti coloro che se ne occupano (…) Da ultimo me ne sono occupato io, difendendolo dai ladri, progettando finanziando ed appaltando il suo totale ripristino. Per mia fortuna oggi un altro protagonista mi ha sfilato dalle forze del destino maligno ed ha preso il mio posto. Grazie Presidente Schifani”.

In fondo a questa disamina articolata, resta un quesito: ossia il rapporto – che va dalla cieca complicità alla totale diffidenza – tra politica e burocrazia. Perché, ad esempio, Schifani non ha riservato le stesse reprimende a chi gli ha confezionato lo scandalo di Cannes, o a coloro che hanno liquidato il pagamento delle parcelle d’oro a Pier Carmelo Russo e Francesco Stallone (entrambi gli episodi sono stati classificati “a sua insaputa”)? Perché ha deciso di pescare tra i pensionati il suo capo di gabinetto (Salvatore Sammartano) e ha affidato la task force sul controllo della spesa del Pnrr a Maria Mattarella, già gravata del ruolo di segretaria generale? Perché, più banalmente, non ha mai preso posizione sulla riforma della pubblica amministrazione, unico strumento propedeutico al rilancio di questa terra? Anche la promessa di ridiscutere con Roma i termini del blocco del turnover, che servirebbe ad abbassare l’età media dei burocrati (oggi vicina ai 60 anni) e immettere nuova benzina nel motore, per il momento è rimasta un annuncio. Basterà una sfuriata a risolvere tutto? E soprattutto, basterà una dirigenza continuamente delegittimata, a rimettere in piedi questa baracca di Regione?