Sono un appassionato di calcio. Quando mi chiedono se amo il calcio io vado oltre e rispondo che mi piace il pallone, ho la sensazione che renda meglio l’idea. Quando l’Inter vinceva aveva in squadra gente di tutte le etnie e religioni. Eppure non m’è mai capitato di pensarci su più di tanto. Voglio dire: non mi sono mai soffermato sugli incroci geografici, sulla prevalenza di africani rispetto ai sudamericani o di slavi rispetto agli italiani. Per me era l’Inter che vinceva e potremmo anche chiuderla qui perché penso di avere reso l’idea.

Non ho mai visto il pallone come scontro geopolitico, non l’ho mai vissuto come contrapposizione tra popoli. Mai guardata una partita per una ragione che non fosse legata al gioco, alla grinta, alla tecnica, alla bellezza estetica, alla valenza culturale addirittura – penso al Milan di Sacchi, all’Inter di Mourinho, al Barcellona di Guardiola, all’Olanda del calcio totale.

Anche ai tempi di Maradona, ho sempre visto con fastidio la storia della rivincita del Sud poverello contro lo strapotere economico e sociale degli Agnelli. Il Napoli di Maradona che vinse lo scudetto contro la Juve di Platini era semplicemente più forte sul campo. Non era questione di scugnizzi, argentini per giunta, contro i ricchi sabaudi con la villa in collina.

A tutto questo ho pensato dopo la vittoria della Francia al Mondiale. Perché ho la sgradevolissima sensazione che l’impresa calcistica francese stia passando in secondo piano rispetto al significato forzoso che in molti le stanno attribuendo per via dei calciatori di origine africana schierati da Deschamps.

Sull’onda emotiva, per altro comprensibilissima, di questi ultimi mesi di baruffe ideologiche e politiche si sostiene infatti che la Francia abbia vinto il Mondiale grazie alla sua tradizione multiculturale e, soprattutto, al sangue africano che scorre nelle vene di molti protagonisti della cavalcata trionfale, a sottolineare il valore e la ricchezza – lo sono, ma per altri versi – di una società senza barriere e votata al confronto e alla mescolanza.

Il pallone che diventa veicolo politico, la vittoria francese trasformata in spot a favore degli sbarchi, eventi lontani anni luce che però misteriosamente diventano, in questo tempo di confusioni e di buoni e cattivi, un tutt’uno.

Dimenticando che il Mondiale avrebbe potuto vincerlo anche l’autoctona Croazia – sconfitta solo in finale – e che fior di Nazionali che come la Francia hanno sempre fatto della multirazzialità una bandiera sono state presto eliminate, a dimostrazione che il pallone non obbedisce a formule magiche e va fatto rotolare senza guardare il passaporto di chi lo calcia.

Ammantare anche il calcio di significati simbolici e consegnarlo alla propaganda, di qualsiasi segno essa sia, è il torto peggiore che gli innamorati del calcio possono fare. Io non lo faccio. Viva la Francia multirazziale del calcio. Ha vinto, ma non ha vinto per questo.