Di avere “le carte in regola” – un principio fissato dall’ex presidente Piersanti Mattarella, a cui Musumeci ha detto di ispirarsi – non se ne parla. L’ultima promessa mancata dal governo regionale, è l’approvazione entro il 28 febbraio di Bilancio e Finanziaria, come sancito dall’accordo Stato-Regione. Quello, per intenderci, che ha garantito alla Sicilia la possibilità di spalmare il deficit da quasi due miliardi in dieci anni (anziché in tre), in cambio di una serie d’impegni da rispettare e di riforme da fare. L’Ars, però, ha ricevuto i documenti contabili solo all’inizio di questa settimana e Micciché non potrà metterli in votazione prima dell’8 e 9 marzo. A Musumeci e Armao, insomma, sono bastati pochi giorni per collezionare la prima brutta figura, per far vacillare il contratto con lo Stato e “l’opportunità – citando il governatore – di riuscire ad avere una Sicilia con le carte in regola rimettendo in ordine i conti”.
La Finanziaria è più una manovra di tagli che non di spesa. In attesa di capire se nelle commissioni parlamentari gli impegni saranno mantenuti, a Roma è cambiato il mondo. Si è passati dall’avvocato del popolo Giuseppe Conte – uno dei due firmatari dell’accordo Stato-Regione – a Mario Draghi, l’ex governatore della Bce. A cui in tanti, nelle ultime ore, guardano con un pizzico di diffidenza. Non solo per essere stato “l’apostolo delle élite” (definizione del grillino Alessandro Di Battista), ma anche per aver nominato una squadra di governo comporta da 18 ministri del Nord su 23, e aver dedicato al Mezzogiorno solo una manciata di secondi durante le dichiarazioni programmatiche al Senato. Pochissime battute, in effetti, per promuovere l’occupazione femminile e spiegare che “la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali” è legata alla creazione di “un ambiente dove legalità e sicurezza siano sempre garantite”.
Un discorso su cui Antonello Cracolici, deputato regionale del Partito Democratico, che pure fa parte della coalizione draghiana, ha espresso delle perplessità: “Ridurre il Mezzogiorno a una questione di legalità e sicurezza, se da un lato è giusto, dall’altro ci pone di fronte a uno stereotipo che genera un alibi. Il punto vero – sostiene l’ex assessore regionale all’Agricoltura – sono le politiche che lo Stato mette in campo per sostenere quel gap differenziale di sviluppo che esiste e tuttora si sta allargando fra le aree del Paese”. Secondo Cracolici, è corretto agire in raccordo con l’Europa, ma è in Europa che va condotta “una battaglia politica per consentire forme di ‘specialità’ per un’area in cui vivono 25 milioni di persone”, il Meridione, “che ha un Pil del 25% più basso rispetto al resto del Paese. Su questo occorre una strategia, a partire dalla fiscalità di vantaggio che deve diventare uno strumento d’attrazione. Poi vengono la pubblica amministrazione, la sicurezza, la legalità”.
Draghi, nella sua disamina, ha spiegato di voler “irrobustire le amministrazioni meridionali”, intervenendo su procedure e burocrazia. “Molte delle lacune amministrative del Mezzogiorno – è la lettura di Cracolici – non riguardano soltanto le procedure, bensì le difficoltà di conoscenza e competenza. La cosiddetta burocrazia è figlia della paura di agire. C’è una tendenza a fare meno possibile per evitare guai. Io credo, ad esempio, che la colpa grave in materia contabile debba essere tipizzata, uniformata e non affidata al giudizio blando dei giudici contabili. Una cosa è il dolo, che va dimostrato sulla base dell’interesse o dell’arricchimento illecito del pubblico funzionario, e incrocia spesso la responsabilità penale; altra cosa è la colpa grave. Spesso la magistratura contabile, nell’avviare procedimenti di responsabilità, individua come colpa grave ciò che può essere colpa lieve. Questo meccanismo blocca il funzionario e diventa l’humus che ritarda qualunque attività. Altro tema è l’abuso d’ufficio: talvolta nel funzionario subentra una specie di scelta, per cui è meglio rispondere dell’omissione che non dell’abuso. La prima, infatti, non ha effetti contabili”.
Tornando al piano più prettamente politico, la Sicilia ha bisogno di agganciarsi all’ultimo vagone del treno. Musumeci, a riguardo, si è già espresso. Una prima volta, nel giorno del giuramento del nuovo premier, dicendosi pronto a valutare tutti i dossier aperti: misure economiche, attuazione dello Statuto, sburocratizzazione per le opere pubbliche e grandi infrastrutture. Poi, ieri, con un’intervista a Repubblica, per chiedere cinque o sei cose da introdurre nel Recovery Plan: “Il collegamento stabile, ovvio. Il completamento del cerchio autostradale da Mazara a Gela, un porto hub che possa intercettare i traffici del Mediterraneo, la velocizzazione delle ferrovie e il loro raddoppio, la messa in sicurezza del territorio, soprattutto per quanto riguarda gli edifici che ospitano scuole e altri servizi pubblici e che sono a rischio sismico. Se poi ci fosse ancora spazio, si potrebbe pensare a un sostegno al piano contro la siccità che abbiamo già avviato”. Il governatore, che potrebbe cedere a Draghi pezzi del suo esecutivo per assemblare il sottogoverno, nel frattempo si è portato avanti, incontrando a Roma il suo mentore: Matteo Salvini (ieri il senatore, a Catania per il processo Gregoretti, ha ricambiato la visita).
“Ha proseguito il lavoro che avevo iniziato io una decina di giorni fa”, conferma Nino Minardo, segretario regionale del Carroccio, reduce dalla consegna al suo leader del “dossier Sicilia”. Un’indicazione di cui il “capitano” ha tenuto conto nell’intervento di mercoledì sera al Senato, dove Sicilia e Ponte sullo Stretto si sono presi la vetrina: “Sono sicuro l’attenzione di questo governo nei confronti del Sud sarà altissima – dice il deputato nazionale di Modica –. Sia per quanto concerne i problemi accentuati dalla pandemia, che a livello di sviluppo e infrastrutture. Sarà possibile anche grazie a noi: la Lega non si limiterà a fare la sua parte, vuole essere protagonista”. Minardo non è preoccupato dallo sbilanciamento verso Nord della squadra dei ministri: “Ovviamente non mi fa piacere… Avrei preferito una maggiore rappresentanza per la mia terra, spero si possa rimediare con i sottosegretari. Ad ogni modo, non ne risentiremo – dice –: i ministri incaricati sono di altissimo profilo e, a partire dai nostri, lavoreranno per la Sicilia con un impegno maggiore di quanto non sia avvenuto in passato. Proprio ieri ha parlato col ministro Garavaglia, a cui ho proposto di organizzare gli Stati generali del turismo nell’Isola. Mi ha dato ampia disponibilità”.
A rovinare questo (potenziale) idillio sono, però, i rapporti pregressi fra Stato e Regione. Che l’accordo firmato fra Conte e Musumeci, almeno sotto il profilo economico, avrebbe voluto “sanare”. Ma da parte di quest’ultimo, e di chi verrà dopo di lui, ci sarà una reale propensione all’ascolto e a cambiare marcia? A disegnare i bilanci con pragmatismo e senza assegni a vuoto? A tagliare gli sprechi, come promesso a più riprese? A correggere gli errori legislativi senza dover attendere il pronunciamento della Consulta? In tre anni di governo Musumeci è accaduto che molte norme fossero impugnate dallo Stato: secondo un articolo di Claudio Reale, su Repubblica, siamo a 14 leggi sulle 54 pubblicate in Gazzetta dal giorno dell’insediamento. Il 22,5%, una media di gran lunga superiore ai governi precedenti. Alcune negli ultimi venti giorni: la riforma sul Codice degli Appalti, ad esempio, è finita nelle grinfie della Corte Costituzionale (ora molte stazioni appaltanti, come i comuni, saranno costrette a ripetere le procedure di aggiudicazione). O il ddl sul concorso dei forestali, impugnato recentemente dal Consiglio dei Ministri per la dotazione finanziaria “incerta”. Per l’assessore Cordaro si è trattato dell’ultimo “colpo di coda di un governo nazionale (il Conte-due) che non ha mai amato la Sicilia”. Ma è stato così anche per la riforma Urbanistica, attesa da 42 anni: l’Ars, dopo l’impugnativa con riserva da parte dello Stato, ha dovuto correggerne un pezzo.
La Regione sembra aver esaurito il proprio credito nei confronti della casa madre. Qualche settimana fa, a Buttanissima, Cracolici aveva spiegato che l’assenza sulle politiche di risanamento e la “poca serietà” del governo regionale “ha generato un pregiudizio, forse anche eccessivo, da parte della struttura amministrativa del Ministero all’Economia”. “Il tema non è tanto con chi parliamo – conferma, oggi, il deputato dem – ma la struttura che esercita la vigilanza sulla contabilità, sulle leggi, che in gran parte spetta agli uffici dei Ministeri. La Sicilia deve ricostruirsi una credibilità amministrativa e istituzionale, che non è funzionale a quale governo sta a Roma, ma è tipico di una Regione che ha spesso interpretato l’autonomia come una sorta di zona franca. La zona franca non è autonomia. Questo ha ampliato la dimensione dei pregiudizi”. Hai voglia a sostenere la tesi della disparità nella distribuzione delle risorse, se non fai nulla per sforbiciare le spese inutili e incentivare la spesa produttiva. Hai voglia di gridare al complotto, se non applichi la trasparenza nelle decisioni. Come diceva il sommo poeta, la politica è l’arte del compromesso. Non una fregatura.