Quelli che vanno più a genio al governo della Regione sono i lavori di edilizia pubblica: la realizzazione del mega centro direzionale, la riqualificazione dei borghi fascisti, il progetto del Ponte sullo Stretto. Obiettivi a medio-lungo-lunghissimo termine che spesso Nello Musumeci ha presentato come “svolte epocali”, salvo tralasciare le macerie (in senso figurato) che sorgevano tutt’intorno. Molti di questi interventi, tra cui la più modesta aiuola della discordia di fronte a palazzo d’Orleans (questione che ha suscitato sdegno popolare e accademico), hanno scandito i primi tre anni e mezzo di questa legislatura. Hanno messo in mostra una visione della Sicilia che, come nel caso del “pirellone” di Via La Malfa, rischia di essere già superata. Che senso ha cercare di radunare migliaia di dirigenti e funzionari sotto lo stesso tetto, mentre la pandemia spinge nella direzione opposta, cioè verso la dematerializzazione del lavoro? Per rispondere a questa domanda basterebbe inoltrarsi nelle valutazioni di carattere “culturale” del presidente della Regione, che ha spesso accostato lo smart working a una pratica per scansafatiche. Ma non è questo il luogo.
Semmai, diventa l’occasione per dimostrare che in tre anni e mezzo, con le riforme strutturali rimaste sulla carta (ad eccezione di quella Urbanistica), la smania del mattone diventa uno specchietto per le allodole. Un modo pittoresco per raffigurare l’azione di un governo che fatica con l’ordinarietà e, per non arrendersi all’evidenza, tira fuori dal cilindro una serie ardita di progetti. Badate bene: non tutti hanno un lieto fine. Al netto dei ragionamenti sul Ponte, che andrebbero incastrati in dinamiche di ampio respiro (con il coinvolgimento di Roma), è il caso del centro direzionale, “il più grande intervento di edilizia pubblica realizzato in Italia negli ultimi decenni”. L’ha detto Musumeci il 12 marzo scorso, quando venne aggiudicato il concorso internazionale di progettazione. Dopo quattro mesi siamo fermi allo striscione del via. Merito, va detto, della Regione che – dopo lo scoop di Striscia la Notizia – ha preteso dall’Avvocatura dello Stato un parere sull’eventuale conflitto d’interessi fra il presidente della commissione aggiudicatrice, il francese Marc Mimram, e alcuni degli studi di progettazione – francesi anch’essi – che hanno partecipato al bando. Uno di essi (Leclercq) fa parte del raggruppamento vincitore. Motivo del contendere è “l’insussistenza di rapporti di lavoro passati o in essere tra i componenti della commissione giudicatrice del concorso”. Dichiarazioni rese dai diretti interessati, che però si sono rivelate mendaci.
Bisognerà escludere i “colpevoli” dal concorso, e assegnare il progetto d’ufficio. Questo potrebbe provocare una catena di ricorsi, e un netto ritardo sui tempi di realizzazione dell’opera. Che fra l’altro – e qui subentra lo scontro fra cosa è utile e cosa non lo è – andrebbe a invadere una zona di Palermo non servita dal tram, né da altri mezzi pubblici, che le auto private rendono un imbuto in tempi normali. Figurarsi con l’afflusso di migliaia di dipendenti regionali al giorno. L’assessore Marco Falcone, rispondendo a un’interrogazione del M5s, ha spiegato che la questione verrà approfondita in seguito. “Purtroppo siamo solo noi a dire che questo centro direzionale non si doveva fare – ha detto l’on. Nuccio Di Paola – o comunque non si sarebbe dovuto progettare in questa maniera per evidenti problemi di mobilità o anche per il semplice fatto che risulta assurdo costruire un’altra mega struttura quando non sappiamo nemmeno quanti immobili sfitti o occupati abbiamo”. Il riferimento, non casuale, è alla ricognizione straordinaria del patrimonio immobiliare (mai ultimata) che la stessa Corte dei Conti, nel corso dell’ultimo giudizio di parifica, ha imputato a Musumeci e Armao.
Restando al tema del mattone, il presidente della Regione ha salutato con fanfare ed entusiasmo la presentazione di un altro progetto che potrebbe cambiare il volto della “sua” Catania: il museo dell’Etna. Usando un parallelismo che ci è già parso di sentire da qualche parte: “E’ l’infrastruttura culturale più importante per la città da venti anni a questa parte”. Il governatore ne parla come fosse già fatti. In realtà, anche per il Museo dell’Etna, che sarà collocato al centro di un complesso che prevede il campus universitario e alcuni laboratori dell’Accademia delle Belle arti, bisognerà attendere. Nell’area dell’ex ospedale Vittorio Emanuele i lavori non dovrebbero terminare prima del 2024. Per tenere fede al cronoprogramma, la gara dovrà essere assegnata entro la primavera del 2022. Di buoni propositi ce ne sono una marea: a partire dalla riqualificazione di un altro palazzo storico di Palermo, l’ex palazzo Esa, appartenuto alla famiglia Florio e caduto in disgrazia.
All’Esa, l’Ente di sviluppo agricolo che doveva sparire, è stata assegnata invece la progettazione tecnica di tre borghi di epoca fascista. Musumeci, al netto delle simpatie politiche, si era prefissato un paio di obiettivi: “Anzitutto, il recupero di uno straordinario patrimonio di architettura rurale appartenente alla storia contadina della nostra Isola; e la restituzione a territori poveri dell’entroterra di tre strutture da destinare ad attività compatibili col contesto, a cominciare dall’agriturismo o dal turismo rurale”. Si tratta di Borgo Borzellino, a pochi passi da San Cipirello, in provincia di Palermo, dove potrebbero sorgere tre aule per organizzare conferenze e alcuni locali per ospitare startup; Borgo Lupo, in provincia di Catania; e Borgo Bonsignore, nell’Agrigento. Sono stati stanziati 14 milioni di euro, ma dopo l’annuncio di un paio d’anni fa è ancora tutto fermo. Angelo Morello, responsabile del patrimonio dell’Esa, ha spiegato a Meridionews che “le fasi sono rallentate a causa del Covid 19”. Adesso dovrebbe toccare alla Soprintendenza definire le procedure per l’affidamento dei bandi e poi ridare vita a questi borghi che negli anni sono diventati autentici posti “fantasma”, vittime dello spopolamento, degli agenti atmosferici e del degrado. Non ci vive quasi più nessuno.
Ma la mano operaia di questo governo a trazione centrodestra, s’è vista anche in altri progetti: a cominciare dall’impegno, spasmodico e senza alcun risparmio di energie (e di spesa), per la riqualificazione della tenuta equina di Ambelia, che nel corso degli ultimi tre anni è stata sottoposta a un restyling – questo sì – completo. L’ultimo milioncino, stanziato da una delibera di giunta, servirà a realizzare stalli permanenti per i cavalli. Ma tra i numerosi interventi alla struttura di proprietà della Regione, che viene gestita dall’Istituto di incremento Ippico, ce ne sono di ben più rilevanti: la sistemazione della stradella d’accesso, la realizzazione di un mega parcheggio e di un edificio che ospita la zona ristoro, le opere di rafforzamento degli argini del fossato e di un paio di ponticelli in legno che collegano alla zona gare. Un’impronta decisiva, spesso contestata da parte delle opposizioni (soprattutto per la minore attenzione riservata ad altre opere: qui l’elenco è enorme, e comprende anche la gestione delle Terme di Sciacca) che ha avuto il merito di cancellare anni di abbandono, incendi e alluvioni. Oggi la tenuta è idonea a ospitare competizioni equestri di carattere internazionale: a partire dalla Fiera Mediterranea del Cavallo che è attualmente in corso.
Non sempre, però, lo zampino di Musumeci è coinciso con vetrine all’altezza. Ne è un esempio placido l’investimento da 922 mila euro per la realizzazione di una nuova area verde di fronte a palazzo d’Orleans, a Palermo. Un progetto “elaborato a più mani” che “nasce dall’esigenza di mettere in sicurezza la cancellata storica del Palazzo su corso Re Ruggero, su cui sono stati fatti interventi importanti, e a seguire il restyling dello spazio antistante il Palazzo reale. A essere restaurate anche le due garitte, che si trovano ai lati del portone principale, e l’intera recinzione in pietra calcarea e ferro battuto. Per motivi di sicurezza – qui casca l’asino – è stato inserito un sistema di dissuasori con elementi in pietra bianca e catena in ferro attorno alle aiuole per impedire di calpestarle”. Diciamoci la verità: non è venuto benissimo. Lo scrittore Roberto Alajmo ha implorato misericordia. Il prof. Paolo Inglese, ordinario di Scienze Agrarie e Forestali all’università di Palermo, ha spiegato che “il problema non riguarda il buono o il cattivo gusto. Ma quando scegli fare un giardino o qualsiasi intervento in un manufatto storico, devi giustificare dal punto di vista culturale e dell’analisi storico-documentale cosa stai facendo (…) Invece c’è una mancanza totale di dialogo culturale fra ciò che è stato realizzato e quello che era già presente”. Pareri consapevoli, pregnanti, che intaccano la concezione dell’opera, e che non possono giustificare la sua spesa, oltre che la sua resa. Pareri che potrebbero convincere il governo a giocare un po’ meno con la forma, e un po’ più con la sostanza delle cose. Manca un anno e mezzo: c’è tempo per rifarsi.