Peggio dell’addio di Dafne Musolino al partito di De Luca, ci sarebbe stato solo l’addio di Scateno. Al suo stesso partito. Tanto basta per raccontare la sorpresa. Eppure, se nel calcio le bandiere non esistono più, in politica non sono mai esistite. Renato Schifani, nel 2013, salpò verso altri lidi – il Nuovo Centrodestra di Alfano – e persino Gianfranco Micciché, per qualche tempo, mise in discussione la leadership del Cav. creando Grande Sud. In questi primi mesi di legislatura, all’Assemblea regionale, solo un deputato, Salvo Geraci, aveva manifestato il coraggio del salto della quaglia, transitando da Cateno (allora è un vizio) alla Lega di Salvini.
Il tradimento della senatrice Musolino, senza uno straccio di sentore, è qualcosa che va oltre. L’approdo a Italia Viva, proprio nel momento in cui De Luca trattava con Renzi un’alleanza strategica (quasi svanita) con vista sulle Europee, è una doppia coltellata. Perché la Musolino è cresciuta all’ombra di De Luca, che prima l’ha fatta diventare assessore al Comune di Messina, poi l’ha candidata alle Europee del 2019 (chiedendo un posto in lista a Forza Italia) e infine l’ha fatta eleggere in Senato, come rimarca oggi il leader un po’ provato, e continuamente in viaggio fra Taormina e la Brianza (dove sta provando l’assalto al seggio lasciato libero da Berlusconi): “A Dafne Musolino non dico nulla, se non ricordarle che l’ho conosciuta quando aveva circa 280 voti e l’ho fatta eleggere al Senato con oltre 260 mila voti. Sì, è vero, sono umano e mi sento come un padre tradito dalla figlia, ma la vita va avanti”, si è sfogato il leader di Sud Chiama Nord.
Alla base dell’addio non c’è alcuna frattura. Nessuno l’ha palesata, tanto meno la Musolino: “Con Italia Viva – ha detto – si sono create le condizioni per un progetto politico di ampio respiro, il Centro, che possa dare risposte a tutti gli elettori che non si riconoscono nella polarizzazione dei partiti a cui stiamo assistendo”. Sarà lo stesso “fiato corto” ad aver convinto il sindaco di Cerda, oggi finito nel mirino della Procura di Termini Imerese, ad abbandonare De Luca per accasarsi col suo “miglior nemico”: Matteo Salvini. Oggi Salvo Geraci è sotto inchiesta per presunte pressioni sul comandante della polizia municipale affinché facesse passare la processione del venerdì santo sotto l’abitazione di un boss e ha deciso di autosospendersi dalla commissione Antimafia. Anche se, ovviamente, lui nega tutto.
E ha rinnegato pure Scateno, qualche settimana fa, adducendo a motivazioni surreali: “La visione avuta (da Sud chiama Nord, ndr) è sempre stata o Messina-centrica o Taormina-centrica. Manca all’interno del partito l’elaborazione di un’analisi politica obiettiva che riesca a indicare e tracciare una via verso obiettivi più ambiziosi”. Ma come si fa a dire o scrivere tali amenità. De Luca non ha bisogno di avvocati difensori, né di essere beatificato. Ma è la sua faccia, la sua campagna elettorale infinita (che gli è costata un ricovero in ospedale), la sua teatralità a dare a ognuno degli otto parlamentari regionali, più i due eletti alla Camera e al Senato, la possibilità di contare qualcosa. Di prendere i voti. Di frequentare i palazzi della politica e intascare uno stipendio generoso. Oltre che di rappresentare la propria gente, attraverso la personificazione di un “reflusso gastrico” rispetto ai soliti interpreti. Renzi e Salvini, con tutto il rispetto, sono i politici di professione più autentici, quelli che i populisti consumati farebbero impallidire con una domanda: “Lei ha mai lavorato?”.
Ma nulla, di questi tempi, regge l’urto dei voltagabbana. Del cambio di casacca. Della campagna acquisti perenne (chiedere alla Dc, che continua a espandersi nelle amministrazioni locali). Alla vigilia delle Regionali, era stato proprio Scateno a cooptare due reduci del Pd, ripudiati da Caterina Chinnici: Angelo Villari e Luigi Bosco. Qualche mese dopo ha accolto, in qualità di portavoce del suo movimento, anche l’ex viceministro all’Economia, Laura Castelli. E per qualche settimana ha condiviso il simbolo del partito con l’europarlamentare Dino Giarrusso, ex Iena ed ex grillino. Segno che puoi essere deluso come padre (adottivo) ma non come politico. Questi scherzetti, che comandano alla logica dell’auto-conservazione, possono capitare a chiunque.
Basti pensare cos’è successo in Forza Italia all’inizio della legislatura: cioè il travaso, all’interno dello stesso partito, dal contenitore di Micciché a quello di Schifani. Perché stare col primo era diventato sconveniente. Dopo l’imbarazzante parentesi di Forza Italia 1 e Forza Italia 2, anche i partigiani dell’ex vicerè, Gianfranco nostro, sono passati dall’altra parte della trincea, al servizio dell’imperatore. Gli effetti collaterali di quell’episodio si manifestano ancora oggi a Palermo: coi due amici-assessori di Gianfranco, Mineo e Pennino, a un passo dall’esclusione dalla giunta di Lagalla. L’assessore alle Politiche sociali si è salvata, superando il casting della lealtà. Il figlio di Franco, già dirigente e parlamentare forzista, è passato invece ai cugini di Fratelli d’Italia, da cui spera di ottenere un prolungamento dell’incarico (ma sono giorni di enorme fermento).
Tra quelli che hanno cambiato più volte bandiera, non si può ignorare Gaetano Armao. Cresciuto politicamente con Raffaele Lombardo, e archiviato in fretta un periodo da indignados, ha indossato gli abiti berlusconiani – sempre molto spendibili – riuscendo nell’impresa di strappare il pass per la compagna, Giusi Bartolozzi, alla Camera. Dopo i primi dissidi con Micciché, ha fatto ingresso nel cerchio magico di Musumeci, di cui sostenne ardentemente la ricandidatura. Per poi finire, l’estate scorsa, sotto le insegne di Carlo Calenda, che lo candidò alla presidenza della Regione come esponente del Terzo Polo. Terminata la farsa, neppure quotata dagli scommettitori, eccolo riaccasarsi con Renato Schifani: consulente per le questioni e i fondi extraregionali (a 60 mila euro l’anno) e, udite udite, presidente della Cts che valuta le autorizzazioni ambientali. Fuori – almeno formalmente – dagli schemi di partito, ma legatissimo alla figura del governatore.
Questo “travaso” continuo, secondo la logica che “non sono io ad essere cambiato ma gli altri”, alimenta la politica dei nostri giorni e non risparmia nessuno: la destra, il centro, la sinistra e persino i grillini. Giancarlo Cancelleri è passato, in un colpo solo, da sostenitore di Grillo (e candidato per due volte alla guida di Palazzo d’Orleans, nonché viceministro alle Infrastrutture nel governo Conte) a fan un po’ patetico di Berlusconi e di Schifani. La Chinnici è passata dalle enunciazioni di principio forcaiole – ne è prova l’esclusione di Lupo dalle liste del Pd per tenere fede alla “questione morale” – al partito ipergarantista fondato da Dell’Utri. La coerenza e l’indecenza (politica, va da sé) non vanno mai d’accordo. Ma sono entrambe due forme d’arte (l’una praticata molto più dell’altra).