Nel romanzo di Cerasa la Sicilia degli amori e dei delitti

Il giornalista Giuseppe Cerasa

Fimmina, mugghiera, matri e bedda matri, bbuttana e cavalera, patrunedda e signurina, trizza e curtigghiara, donna di fuora e donna di intra, dunnuzza di locu… e ci sono pure i pesci, spesso impudichi, come passera, lappara, fravagghia, ciaula e mìnula. Non è stato ancora compilato l’elenco dei nomi che i siciliani danno alla donna, alla più potente ossessione letteraria italiana, la musa che prima o poi trasforma in poeti tutti i masculi scrittori. E infatti “Storie di donne, passioni, segreti” è la prima riga del lungo sottotitolo di Sipario siciliano di Giuseppe Cerasa, che l’editore Aragno manda in libreria.

Questo “sicilian dream”, con poche concessioni al siculo-camilleriano alla moda, si apre con la maestra Marianna che, educatrice fiera, libera e indomabile ma “piccolina di statura”, trova la forza che “non credeva di avere” e, a “braccio di ferro”, affronta e vince il bulletto del “mondo offeso” della Vucciria, 14 anni di picciutteddu figlio di picciottu in galera, che le aveva rubato il cardigan e ci puliva il pavimento della scuola. È «il racconto della faticosa emancipazione attraverso l’insegnamento» si scalda nella prefazione Stefania Auci: «sono le donne la vera spina dorsale della Sicilia». Nel libro non c’è scritto: la maestra Marianna è Annamaria, la donna che a pagina 74 si affaccerà al balcone che in Sicilia è sempre palcoscenico e remake di qualcosa: «chi fa, talia?».

La maestra sposerà Peppino che, come Brancati, delle donne non è mai stato il carceriere, ma il prigioniero. E infatti si consegna agli occhi ladri che «parlavano da soli» e gli facevano ballare i pensieri, mentre sotto la sua casa stampava Il giornale del corleonese, un mensile, la sua prima volta. Pensate: giornalismo a Corleone, venti chilometri da dov’è nato.

A differenza della Cina di Cartier-Bresson, che era bella perché non somigliava alla Cina, la Corleone di Peppino è bella perché somiglia a Corleone. Racconta, per esempio, che tra morti ammazzati e trattori, anche nella cuccia di Liggio, Riina, Provenzano e Bagarella nel 1968 scoppiò il sessantotto. Al liceo Baccelli, dove il professore era mafioso, la rivolta di Peppino fu subito antimafia. Il suo ce n’est qu’un debut è la storia di una vocazione, il romanzo di formazione di un giornalista “brutalist”, per dirla con il film capolavoro dell’anno, giornalismo duro, dove la notizia è di cemento armato a vista, e l’orpello estetico è un delitto. E siamo già arrivati all’Ora di Palermo dove tutti si sentivano e ancora oggi, nel più vivo dei giornali morti, si sentono parte di qualcosa e compagni di qualcuno.

Aggiungo alla prefazione femminista di Auci che, frugando nella memoria, Peppino Cerasa riscopre la Sicilia arcaica, la tradizione letteraria che, troppo presto è stata liquidata come stereotipo, la ricotta dei pastori e le città di Vittorini, le Belle di Borgese, gli odori di Quasimodo, l’umorismo di Pirandello. E sarebbe una magnifica sceneggiatura per Woody Allen se trattasse la Sicilia d’Occidente come ha trattato New York, Barcellona, Londra e Parigi: cartoline gioiose, che sembravano sparite, di una Sicilia che non ci fa solo piangere e disperare, ma anche ridere e sognare.

C’è, per esempio, Piddu u varveri che nel vicolo prende Giovannella tutta cunsata e allicchittata e la restituisce rossa come un peperone. Ci sono, tra le ricchezze del corredo, le lenzuola di musolinone e di matapollo. E poi le pennellate di bianco d’uovo, le lamette da barba per intarsiare i biscotti. Il cibo è il banchetto della fame. La ricetta dei cannoli è segreta. La domenica è regale con il brociolone al sugo, l’odore di basilico e la salsa fresca: «a sassa, a sassa» era il grido dell’Ultima provincia.

Finalmente strappato alla mafia, il pittoresco gentile è rivendicato come identità nella quale i siciliani volentieri si ri-conoscono, perché qui non ci sono né il pacchiano né la caricatura delle pecore, delle coppole, della lupara e dei vecchi in canottiera che in piazza si perdono in conciliaboli inutili e severi.

C’è, al contrario tutta la Sicilia nelle mani di Sarina, la fornaia che trasferisce al pane quell’odore che ti fa credere in Dio. Si chiama Sarina anche la sarta che cuce gli abiti da sposa a tutte le donne del paese e intanto le confessa. Ed è bellissima, con gli occhi e i capelli neri, ma di nero-Sicilia, che è il nero più colorato del mondo.

Peppino, a Repubblica, è stato per mille anni “il capocronista” delle pagine di Roma, dove, ancora oggi lo chiamano “il direttore”, anche quelli che a Scalfari davano dell’“Eugenio”.

E dipenderà dai nipotini Leonardo e Francesco, ai quali il libro è dedicato, se i Cerasa entreranno nelle dinastie del giornalismo italiano, quelle dei Vergani, dei Barzini, dei Cederna. Per adesso fanno coppia, Peppino e Claudio, il quale da dieci anni dirige il Foglio, il giornale-scuola di Giuliano Ferrara, che ha cambiato, ma non ne ha tradito la genialità, anche grazie a un rapporto complice e tenero tra fondatore e direttore, che si ispira, immagino, alla lunga storia d’amore tra Eugenio Scalfari e Ezio Mauro.

Sono tanti i capitoli che ho saltato nel sogno realizzato del cronista modello, i morti ammazzati e la ferocia della provincia, il brutalismo che il tempo ha reso goffo di “è la stampa, bellezza”, l’ossessione della notizia che Peppino rubava a tutti, persino al suo professore di Diritto, un uomo politico che gli voleva bene e, anche se all’esame non lo vide mai, già allora gli avrebbe dato quella laurea in giornalismo che la Sapienza gli ha poi concesso per onore. E c’è qualche gag che non vi anticipo prima dell’abbraccio finale tra il cronista e il professore, che era Mattarella prima di Mattarella: Sergio e Peppino al Quirinale.

Francesco Merlo per Repubblica :

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