Il coraggio fuori misura di un oppositore richiede metodi fuori misura per farlo fuori. Putin non aveva bisogno del manuale del Kgb per mettere in pratica questa massima e ammazzare un oppositore irriducibile, testardo, forte di una mistica politica spavalda, russo come pochi nella Russia di oggi, un Dostoevskij redivivo ma non slavofilo, Alexei Navalny, uno che sopravvive alla propria morte nel ghiaccio di una colonia penale artica. Bastava l’esperienza. Navalny aveva mobilitato pezzi di società civile, masse di giovani, aveva costruito un circuito di comunicazione pericoloso. Se per Anna Politkovskaja era stato sufficiente un agguato metropolitano, se lo stesso era stato simbolicamente per Boris Nemtsov, a due passi dal Cremlino, se molti altri erano stati colpiti all’estero dove avevano cercato un precario rifugio, per Navalny le cose erano più complicate. Ma non irrisolvibili, come si è visto ieri.
Cominciarono un decennio e passa fa con le bastonature e l’imprigionamento dei suoi e di lui stesso, con la repressione di strada, con le perquisizioni, le calunnie e dosi omeopatiche di carcere afflittivo. Niente da fare. Continuava a denunciare l’illibertà, e aggiungeva la cleptocrazia come componente scandalosa di un potere di dominio oligarchico che stava sversando la propria merda danarosa sul ceto medio urbano che per un momento aveva illuso e egemonizzato. Sempre meno tollerabile, quel blogger che intanto non doveva mai essere nominato dalle autorità, un annientamento di identità prima dell’altro annientamento. Sono ricorsi poi al classico veleno, negli indumenti, in albergo, durante un interregno di libertà di movimento e azione del cattivo soggetto. Presi in castagna, avevano dovuto subire la denuncia di un mezzo morto che, risorto come il suo avo Fëdor dopo una falsa fucilazione, imputava loro di averci provato col novichok, senza per giunta nemmeno riuscirci grazie alle cure dei medici tedeschi e norvegesi.
Serviva un mezzo più lento. Serviva a quel punto la disponibilità del corpo di un giovane robusto e bello di quarantasette anni. Poi, come ha rilevato il suo medico in un tempo pericoloso in cui venivano perseguitati anche i suoi avvocati e appunto i sanitari che di lui si erano occupati, alla lunga a quel tipo di carcere duro non si resiste. Sembrava stesse discretamente, sorrideva ancora il giorno prima di morire, raccontava jokes o barzellette, chiedeva la paghetta perché le multe per non avere osservato l’orario del laboratorio di cucito, compreso nella pena artica, gli avevano prosciugato le tasche carcerarie, di tanto in tanto lanciava strali contro la guerra d’invasione in Ucraina, faceva il bullo forte non più del suo corpo malandato dopo tre anni di trattamento tribunalizio e concentrazionario alla Zar o alla Stalin, ma della sua mente impavida, strafottente, e del suo amore telepatico per la moglie Yulia e i due figli.
Gli occidentali non avrebbero dovuto lasciarlo partire, quando aveva deciso di consegnarsi volontariamente al boia che aveva usato il veleno e qualche altro ritrovato lo poteva ben sperimentare sull’oppositore intrattabile. Non andò così perché qui si è liberi di farsi anche molto male. Navalny non accettava di essere un capo lontano dal popolo in cui aveva riposto una incredibile e vana fiducia. Legato alla sua pratica, alla sua immagine, al suo dovere civile, era voluto tornare in patria, sperando forse, ma comunque non considerando l’alternativa, che una cosa così grossa, così sporca, così sproporzionata, eppure così ovvia per un sistema fondato sul gulag, una cosa come l’arresto e il processo farsa a un dissidente noto nel mondo, e il suo lento dissanguamento, non avrebbe potuto succedere. Eppure nei suoi Quaderni, Antonio Gramsci aveva riportato un brano del libro di Eugenio D’Ors, come ricorda Roberto Roscani in un eccellente libro sulla storia dell’Unità. Questo brano: “Vi sono due modi di uccidere, uno quello designato francamente dal verbo uccidere. L’altro, che si sottintende abitualmente dietro il delicato eufemismo ‘rendere la vita impossibile’. E’ l’assassinio perpetrato, in modo lento e oscuro, tramite una folla di invisibili complici. E’ un auto-da-fè, senza strangolamento e senza rogo, messo in atto da una inquisizione che non conosce giudici né sentenze”.