Nello Musumeci comincia a rimanere isolato nella sua “bolla”. Una sorta di Area 51 a cui hanno accesso solo i fedelissimi (stretti collaboratori e assessori più vicini). Un capolavoro di ingegneria presidenziale che gli si potrebbe ritorcere contro. Il filo conduttore di questi due anni e mezzo di governo, quasi tre, è simile all’avviso che riecheggia nella metropolitana di Londra: “Mind the gap”. Mantenere le distanze. Un ruolo che il governatore, fin qui, ha interpretato alla lettera: distante dall’Ars, con cui ha sempre evitato di scendere a compromessi, pur di mantenere intatta l’aurea di presidente incorruttibile (in senso morale). Distante dai partiti che compongono la sua maggioranza, con cui si è riunito tre volte in tre anni, per decidere la nomina di Samonà ai Beni culturali e lo schema per le prossime Amministrative, stravolto in corso d’opera.
Una competizione elettorale da cui resta – prudentemente – alla larga: anziché giustificare i frequenti voltafaccia alla Lega, Musumeci si rifugia nell’alibi che lui è il presidente, e come tale non può esporsi in prima persona. Gli conviene stare ai margini. Come per le Europee, sedici mesi fa: anziché prestare il fianco (e la faccia) ad esprimenti arditi e possibili figuracce, si accomodò in tribuna. Ma adesso il governatore siciliano, che sembra aver consumato in anticipo – maledetto virus – la sua “rivoluzione”, guarda ai prossimi appuntamenti con un evidente coinvolgimento emotivo. Vorrebbe ricandidarsi. Ma non sa ancora come. Potrebbe sfruttare la coincidenza col voto nazionale, per chiedere ai partiti della coalizione uno slancio di generosità e concedergli un’altra chance (un cambio in corso d’opera sarebbe difficile da spiegare all’elettorato). Ma i risultati fin qui scarseggiano e intorno a Musumeci, in questa fase, si avverte la freddezza.
Gianfranco Micciché, l’alter ego del presidente della Regione, è il primo con cui scendere a patti. Forza Italia in Sicilia è una realtà numericamente imprescindibile. Ed è anche il primo partito della coalizione all’Ars. Per questo il commissario azzurro, nonché massimo inquilino dell’Assemblea, non accetta i continui ritardi sul “rimpastino” interno, chiesto a gran voce da settimane; tanto meno la diffidenza con cui Musumeci tratta gli alleati-appestati, compreso lui. Nel corso della cerimonia del Ventaglio, alla vigilia della pausa estiva, ha esternato che il “presidente della Regione non è dio”. Puntando il dito contro i suoi collaboratori, bravissimi nel mettere zizzania. Ma anche ieri, in una breve intervista al Giornale di Sicilia, il presidente dell’Ars ha alimentato la tensione: “La ricandidatura dipende da lui. Se decide di essere il presidente di tutti, non c’è motivo perché se ne cerchi un altro. Per ora non lo è stato. Io ho bisogno di un presidente che si faccia carico della coalizione, come Berlusconi. Musumeci, invece, toglie agli alleati”. Alle parole arroventate, sempre ieri, ha fatto seguito un pranzo cordiale al ristorante dell’Ars. Un tentativo di disgelo alla presenza di Riccardo Savona, “facilitatore” di Forza Italia nelle stanze del potere.
Ma tutti i partiti, in questi mesi di emergenza, hanno scavato nel proprio malcontento. E accentuato i dissapori per le iniziative del “comandante in capo”. Un’altra mancata risposta, dopo quella sul rimpastino a Micciché, ha indispettito il Carroccio. Era stato Salvini, a inizio estate, a prospettare l’idea di una federazione con Diventerà Bellissima: un patto di mutuo soccorso che avrebbe permesso all’ex Ministro dell’Interno di mettere radici (più solide) nell’Isola, e ai Nello-boys di blindare il secondo mandato del presidente, oltre che un paio di seggi nel prossimo parlamento nazionale.
Ma i patti sono naufragati a causa del silenzio di Musumeci – la base non è d’accordo – e di quanto avvenuto in provincia per le Amministrative. Dove il movimento del governatore non ha fatto nulla per agevolare l’ingresso della Lega e in alcuni comuni, vedi Milazzo, l’ha pubblicamente osteggiato. L’accordo di Augusta su Massimo Casertano, candidato dei lùmbard, non basta a salvare le apparenze. E’ troppo poco per due partiti che aspirano a lavorare insieme. Inoltre, non è servito il balzo a destra sul tema dei migranti – e quell’ordinanza provocatoria e prevaricatrice che in tanti, anche i leghisti, hanno condannato – a ripristinare gli amorosi sensi dell’avvio. “Musumeci si crede Zaia, ma è fuori strada” sussurrano dall’entourage di Salvini a microfoni spenti.
Al modello veneto, simile per struttura a quello dell’amico Toti in Liguria e del collega De Luca in Campania, Musumeci vorrebbe/potrebbe ispirarsi. La figura del leader carismatico, in questa fase storica, ha il suo perché. E Nello ha già cominciato a rimuginarci su e a manovrare. Ha provato, durante e dopo il lockdown, a ingigantire la portata della sua propaganda, mettendo in scena proteste strenue (la mascherina) e provvedimenti mirati (l’ordinanza sulla chiusura dei porti), che gli sono costate qualche attacco e un bel picco di popolarità. Non ai livelli di Zaia, chiaramente. Che oltre a gestire in maniera quasi impeccabile l’emergenza sanitaria, ha fatto del Veneto una Regione virtuosa in termini di servizi e infrastrutture. In Sicilia, invece, siamo fermi a una Finanziaria di cartone. Inoltre, Diventerà Bellissima, a meno di un miracolo nel segreto dell’urna, difficilmente potrà ambire alle percentuali della lista Zaia (oltre il 40%, tre volte rispetto alla Lega) o di “Cambiamo con Toti”, che in Liguria ha cannibalizzato gli alleati del centrodestra. Semmai potrebbe limitarsi al ruolo di Mastella, che in Campania – col 4,4% – ha dato un bel contributo al plebiscito di De Luca.
Musumeci, insomma, faticherebbe a correre da solo. E più di chiunque altro, ha bisogno di alleati. Detto della Lega e di Forza Italia, che si sono infreddoliti, non gli rimane che la Meloni. I rapporti, però, non sono più quelli di una volta. Stancanelli, co-fondatore di Diventerà Bellissima, non ha mai digerito il rifiuto secco alla sua proposta di federazione con gli ex missini. Tanto meno le dichiarazioni che ne seguirono, quando Musumeci bollò Fdi come un partitino del 2-3%. Oggi ha quasi il 15%. Così l’eurodeputato non perde occasione per bacchettarlo. E certamente – anche se si tiene sul vago – preferirebbe vedere a palazzo d’Orleans il suo amico Salvo Pogliese, che però è rimasto incagliato nella brutta storia delle spese pazze, che oltre a tagliarlo fuori dalla corsa alla presidenza, gli ha fatto dismettere (per effetto della Legge Severino) i panni da sindaco a Catania.
Nemmeno la vicinanza dei centristi, al netto del sostegno volontario di alcuni assessori, è garantita. Saverio Romano ha disquisito più volte sull’assenza di dialogo tra i partiti e il governatore, si è arrabbiato per le uscite “violente” contro i magistrati del Tar e starebbe pensando di candidarsi a sindaco di Palermo. Un ruolo per cui Musumeci preferirebbe Lagalla. I popolari, inoltre, starebbero riflettendo (ancora!) sulla possibilità di lanciare in orbita una replica della Dc, riunendo tutti i moderati di Sicilia. Inclusi – ma siamo nel campo delle suggestioni – Forza Italia e Italia Viva, persino un pezzo del Pd. Lasciando fuori gli estremi e lo stesso Musumeci. Mentre i discepoli di Lombardo, che in questa campagna per le Amministrative pare sia tornato a mordere, restano più ancorati alla realtà e a una federazione con la Lega. Pronti a garantire a Salvini – nonostante i naturali incidenti di percorso, come ad Agrigento – una sponda per il suo radicamento.
Il campo della Sicilia, a due anni delle Regionali, è ancora molto frastagliato. Ma l’esempio delle altre Regioni induce a ragionare su ciò che unisce, e non su quello che divide. L’affermazione del centrodestra – con o senza Musumeci, e con tutti i distinguo del caso – dovrà tenere conto della saldatura in atto fra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico (cui contribuisce anche Fava), che fra un paio di settimane passerà al vaglio di due comuni: Barcellona Pozzo di Gotto e Termini Imerese. Ragionare sul voto delle prossime Amministrative, più che su quello delle Regionali, sarà lo strumento con cui proiettarsi nel futuro. Il 4 e 5 ottobre, a causa di una frammentazione eccessiva, molti perderanno: è già scritto. Per non ricascarci, prima o poi, bisognerà uscire da quella “bolla”.