L’ultima giornata campale Nello Musumeci l’aveva trascorsa a Trapani, tra un appuntamento col prefetto e un incontro con il commissario dell’ex provincia. Lontano dal fortino di palazzo d’Orleans, dove s’era rifugiato all’indomani della ‘sconfessione’ subita dall’Ars sulla vicenda dei grandi elettori per il Quirinale. Era metà gennaio. Quell’episodio, che non ebbe le conseguenze paventate (cioè l’azzeramento della giunta) e fu in parte riscattato dall’accordo chiuso con la Meloni nei giorni in cui Mattarella veniva riconfermato al Colle, sembrava l’ultima umiliazione pubblica ricevuta dal presidente della Regione. E invece il parlamento siciliano, mercoledì, s’è spinto addirittura oltre: arrogandosi il merito di bloccare, da qui alla fine della legislatura, le nomine in tutti gli enti e le aziende della Regione, ivi comprese quelle sanitarie. Togliendo a Musumeci e ai suoi fedelissimi l’ultimo, ambitissimo giro di valzer.
Il comportamento dei deputati di Diventerà Bellissima – la portavoce Savarino ha chiesto addirittura di apporre la sua firma sull’emendamento proposto da pezzi di maggioranza e opposizione – maschera una inquietudine profonda. Della serie: non si è più padroni nemmeno a casa propria. Lo stesso Musumeci ieri mattina, durante la presentazione dell’Accademia del Tonno rosso, ha dissimulato la tensione: “E’ giusto che le nomine di questo governo vadano congelate fino alla scadenza elettorale. La forza politica o la struttura di un governo non si costruiscono sul sottogoverno, ma sulla capacità di lavorare al servizio del territorio”. Aricò, capogruppo del movimento, ha parlato di “una norma che certifica in maniera inequivocabile, anche da parte dell’opposizione, il buon lavoro svolto dal governo Musumeci nella scelta dei soggetti preposti alla gestione degli enti pubblici regionali”. Ma è vero anche (e soprattutto) il contrario: legare le mani a Musumeci e al suo ‘cerchio magico’ significa togliere dalla loro disponibilità un’arma micidiale per la creazione del consenso, specie con la campagna elettorale alle porte. I manager non si toccano, e nemmeno i vertici delle partecipate. Al massimo le stesse figure, se in scadenza, potranno essere riconfermate come commissari. Piacciano o non piacciano.
Il messaggio a Musumeci è stato trasversale, anche se camuffato dall’adesione in extremis dei suoi fedelissimi e degli ex grillini di Attiva Sicilia, tra i più ferrei sostenitori del “metodo errato” e fra i meno disposti a cedere il passo. Sulla proposta di legge ‘macedonia’ approvata dall’Ars comparivano, però, le firme di tanti protagonisti iscritti al partito dei No-Nello: dal capogruppo di Forza Italia Tommaso Calderone, che l’ala filo-musumeciana del suo partito aveva provato (inutilmente) a destituire; a Luca Sammartino, presenza ingombrante in casa Lega, da sempre rivale accanitissimo del governatore di Militello; passando per Totò Lentini, esponente del partito autonomista di Lombardo; e c’era persino Eleonora Lo Curto, capogruppo dell’Udc, un partito che in tempi non sospetti s’era schierato per il bis del governatore e che, adesso, sembra pronto a sacrificarlo nonostante le recentissime regalie (la nomina di Ester Bonafede a Taormina Arte).
Musumeci appare assediato e senza amici. Non gli basteranno i suoi pretoriani per sopravvivere. Non gli basterà aver difeso strenuamente l’operato di Gaetano Armao, reo di aver pasticciato più volte sui conti, fino a inimicarsi le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, o di non aver controllato abbastanza sulla gestione clientelare dei carrozzoni (il caso Ast grida vendetta); né aver riaccolto in giunta il delfino Ruggero Razza, uscito sgonfio dall’inchiesta della Procura di Palermo, che lo accusa di aver partecipato al “disegno criminoso” sulla comunicazione dei dati falsi al Ministero della Salute e all’Istituto Superiore di Sanità (ci sarebbero pure lo scandalo dell’Oasi di Troina e i cattivi rapporti con i vertici dell’assessorato e della Seus); non gli è bastato aver assolto l’assessore Messina, dopo i “suca” riversati su alcuni detrattori e le accuse alla stampa non allineata. Musumeci ha difeso tutti, ma non è stato difeso abbastanza. E oggi appare senza corazza. Bersagliato. Anche da alcune frange interne del suo (nuovo) partito, quelle dell’ordine e della disciplina, persino un po’ forcaiole, che non vedono di buon occhio i recenti accordi fatti per sopravvivere: coi Dell’Utri, coi Cuffaro, coi Genovese. E tutto ciò al netto della rottura, ormai storica e difficile da rimarginare, con Raffaele Stancanelli.
Musumeci ha dovuto muoversi su terreni sconnessi. Distanti dal suo sentire. Ha ripiegato sugli unici disponibili a stargli dietro. Non ha saputo garantire gli equilibri del centrodestra nei primi quattro anni di legislatura. E nessuno gliel’ha perdonato. Ha Salvini contro. Micciché contro. Lombardo contro. De Luca contro. Costruire una ricandidatura partendo da queste basi flaccide è pura utopia, sebbene il verdetto finale sia rimandato al chiarimento romano, tutt’altro che amichevole, fra Meloni e Salvini. Il governatore si limita a smussare gli attacchi, derubricando i dubbi sul suo conto a “chiacchiere per alzare il prezzo, ma io non mi occupo di mercati”. In questo clima da campagna elettorale perenne, in cui il governo regionale ha perso la cognizione del tempo, dello spazio e delle priorità, le beghe rimangono l’unica costante. La prossima, sul piano operativo, sarà costruire una Legge di Stabilità che tenga conto del mezzo miliardo promesso da Armao (a seguito dell’ultimo accordo di finanza pubblica che dovrebbe diventare operativo entro aprile) e degli appetiti di una deputazione alla ricerca spasmodica di un posto al sole. All’interno di un parlamento balcanizzato, che non tiene più conto di maggioranza e opposizione, ma solo di una prospettiva: le elezioni Regionali. Il vero ‘libera tutti’.