Musumeci si è svegliato dal torpore e ha deciso di rompere questo muro di silenzio, per non dire altro, di fronte alla magistratura che negli ultimi mesi ha indagato un terzo della sua giunta e 13 deputati della sua maggioranza (in totale sono 16). Fin qui il silenzio ovattato del presidente della Regione era stato interrotto da qualche rara incursione del Movimento Stelle, molto più tenero rispetto al passato (ciò che sta avvenendo a Roma è un deterrente alla polemica gratuita). Ma ora, di fronte all’ennesimo colpo basso inferto alla giunta per il tramite di Lagalla (gli è stato recapitato un avviso di garanzia per abuso d’ufficio a Castelvetrano), il presidente della Regione qualcosa ha detto: “Le indagini della magistratura condotte su ambienti e uomini politici sono sempre una garanzia per la buona politica. Ma attenti a non trasformare l’indagato in colpevole. Voglio essere più chiaro: mi fanno paura i politici giacobini, i sanculotti in servizio permanente, quelli che come iene e sciacalli aspettano, dietro l’angolo, la notizia di giornale per emettere sentenze di condanna e dare lezioni di moralità. I moralisti per professione sono una brutta categoria: usano la giustizia inquirente come arma politica per colpire un avversario altrimenti invulnerabile o per coprire proprie inefficienze, colpe e persino doli, come fatti anche recenti dimostrano”.
Musumeci, da uomo perbene e pacato, sfodera poi il tema del garantismo: “Per formazione e storia personale credo di non potere ricevere lezioni di vita da nessuno: sono sempre stato garantista e non ho mai speculato su vicende giudiziarie che abbiano visto coinvolti uomini e donne di tutti gli schieramenti, grillini compresi. Chi riveste ruoli istituzionali, ad esempio nel governo regionale o all’Ars, ha il dovere di chiedere “trasparenza” nel voto d’Aula (altro che voto segreto!) e l’applicazione di un codice etico per tutti, governanti, deputati e burocrati. Ma soprattutto ha il dovere di rispettare nel silenzio il lavoro della magistratura e attendere fiducioso il giudizio finale. Pretendendo che se a sbagliare è un politico, merita di essere condannato due volte”.