Il giorno del giudizio, di fronte ai deputati dell’Ars, potrebbe essere mercoledì. Quando Nello Musumeci sarà chiamato a ribadire il perché di quell’annuncio così audace – l’azzeramento della giunta – al termine di una votazione sui grandi elettori che gli aveva inflitto l’ennesima pugnalata alle spalle, partorita col voto segreto. Musumeci ha trasformato una bocciatura personale nel sacrificio della sua giunta, poi ha dovuto ripensarci. Così, quando si è accorto di aver processato i suoi assessori per niente – l’obiettivo dell’aula era lui: il presidente della Regione – ha dovuto ricucire un passo alla volta, soggiacendo alle indicazioni dei partiti. Maledetti. Si è passato dalla minaccia di dimissioni (impedite in extremis) all’azzeramento, dall’azzeramento al rimpasto, dal rimpasto alla giunta elettorale, dalla giunta elettorale al non toccare nulla.

E nel frattempo la situazione generale è diventata ingestibile, e i fronti di battaglia si sono moltiplicati: la fuga d’amore nella Capitale per blindare l’accordo (dimezzato) con Fratelli d’Italia e la Meloni; la gestione caotica dei soldi del Pnrr destinati alla sanità; le leggi(ne) impugnate dal Consiglio dei ministri (una marea); il caos dei concorsi che fa da presagio a una primavera infuocata. Sullo sfondo rimane la prossima sessione finanziaria: l’esercizio provvisorio di quattro mesi si appresta al giro di boa; prima o poi bisognerà mettere a punto una Legge di Stabilità reale, che potrà contare sulla leva (?) del mezzo miliardo preannunciato dall’assessore Armao, frutto dell’ultimo accordo di finanza pubblica partorito a Roma. Ecco: aprire una crisi di governo al buio, obbligherà Musumeci a giocare a carte scoperte di fronte a un parlamento che sente l’odore del sangue. E che già all’indomani di quella pessima esibizione via social – in cui apostrofò come “vigliacchi” e “scappati ci casa” coloro che decisero di voltargli le spalle – aveva richiesto, tramite i capigruppo dell’opposizione, la convocazione di un dibattito d’aula. Per discutere della crisi.

Una crisi profonda e irredimibile all’interno del tessuto del centrodestra, questo sì, che però rischia di non avere alcuna conseguenza sugli assetti istituzionali. Il presidente della Regione ha dovuto riporre ago e filo nel cassetto: nessuno degli alleati vuole scucire la trama. Azzerare la giunta poteva determinare nuovi equilibri: la Lega, ad esempio, avrebbe richiesto un assessore in più o, nel caso di una giunta elettorale, se ne sarebbe rimasta in disparte, garantendo (forse) un appoggio esterno. Forza Italia avrebbe puntato dritto sulla Sanità, o magari sulla sostituzione di un paio di assessori legatissimi al governatore (Armao e Falcone), il che avrebbe finito per indebolire il mastice del suo cerchio magico. L’Udc avrebbe perso consistenza, dato che la proporzione fra numero di assessori in giunta (3) e di parlamentari in aula (4) non tiene conto dei rapporti di forza reali. Nessuno dei partiti, inoltre, ha voluto giocare questa mano per timore di finire invischiati nella tela di Musumeci, che da mesi architetta la propria ricandidatura. Ed è disposto a tutto per ottenerla.

L’unica a dirsi favorevole – mandando in avanscoperta i suoi “uscieri” e senza mai pronunciarsi, tuttavia, sulla creazione di una lista unitaria alle Regionali – è stata Giorgia Meloni. Che all’indomani dell’esito del Quirinale, raccogliendo i cocci di un centrodestra lacerato, ha spiegato che la ricandidatura di Nello è naturale. Anche se il governatore non ha mai abbandonato il timore che, per amor di coalizione, venga barattata al momento opportuno con quella del Lazio, dove si vota nel 2023. Scenari che favorirebbero il ritorno in scena di Salvini, che non ha mai nascosto la propria ambizione di far governare l’Isola a un leghista. Scenari. Musumeci, nel frattempo, prova a giocare in difesa assorbendo nel gruppo parlamentare di Diventerà Bellissima i quattro deputati di Attiva Sicilia, ex grillini. Non gli basterà il terzo gruppo  all’Ars (per dimensioni) per reggere alla prova del fuoco.

Difficile capire come se la caverà mercoledì alla prova dell’aula. Difficile capire come potrà spiegare le sue piroette (basterà invocare il solito “treno da non perdere” del Pnrr per motivare l’azzeramento dell’azzeramento?). Come potrà giustificare “l’occupazione della sanità”, a partire dalla creazione di una task force monocolore per la gestione di 800 milioni o i messaggini indirizzati dal suo segretario particolare ai sindaci, preannunciando interventi che l’Ars nemmeno conosce e non ha mai vagliato; o il parziale fallimento della stagione dei concorsi, che dopo centinaia di annunci e trent’anni di attesa, vanno a sbattere su un pasticcio procedurale. E sarà ancora più difficile, se qualcuno glielo dovesse chiedere, rispondere sui posti letto “a scomparsa” dei reparti di Terapia intensiva negli ospedali dell’Isola; e sul perché il Consiglio dei Ministri abbia finito per bocciare norme assai care al governo, come quella che finanzia il concorso per 46 Forestali. L’occasione, magari, potrebbe tornare utile per fare un punto sulle nomine di sottogoverno, e sui principi che le hanno ispirate. Alla Seus, la società di emergenza-urgenza, è stato nominato dopo sette mesi d’impasse l’ex presidente del Tar di Palermo, Calogero Ferlisi. Prende il posto del leghista Davide Croce. All’Ast, invece, esce Gaetano Tafuri, entra Santo Castiglione, sempre in quota Mpa. A Musumeci toccherà rispondere anche di questo. E tutto per aver deciso, in un momento d’ira, di buttare via il bambino con tutta l’acqua sporca.