Al liceo Garibaldi di Palermo avevamo un’insegnante di Lettere italiane fissata con la poetica. Impiegava infinite ore del suo tempo per spiegarci quanto importante fosse la poesia nella vita.
Noi, studenti del biennio di ginnasio, la guardavamo come se fosse una marziana e, tra i banchi, ci scambiavamo maliziose occhiate di compatimento. Ma davvero quella donna pensava che la poesia ci potesse aiutare nella vita?
In quei giorni, la vita – proprio quella di cui la professoressa raccontava – ci esplodeva dentro come una bomba atomica di felicità. Non c’era spazio per la poesia. Anzi, vaffanculo alla poesia! L’adolescenza ci rapiva con le sue inarrivabili follie. Inseguivamo un qualsiasi oggetto sferico e rotolante per improvvisare una partita. Corteggiavamo le nostre compagne adolescenti cercando di inseguire l’ultima moda. Scambiavamo i primi baci tra le onde del mare di Mondello.
A cosa poteva servirci la poesia che quella donna cercava di ammannirci? Dicevamo in coro: vaffanculo alla poesia! Ma lei continuava imperterrita, sorridendo dolcemente, su ogni intemperanza. Ripeteva, in modo vano, davanti ai nostri sguardi perduti sul soffitto: “Spesso il male di vivere ho incontrato… era il rivo strozzato che gorgoglia…”. Come se volesse trapanarci i pensieri con un percussore di saggezza, insisteva: “Eugenio Montale vi servirà nella vita più della notte passata in discoteca…”. “Sì… va beh… professoressa… magari mettiamo Montale al posto dei Bee Gees!” – rispondevamo inebetiti dalla incoscienza della minore età.
Passarono gli anni e da giovanissimo giudice istruttore mi chiamarono in una fredda notte di un inverno agrigentino. Mi dissero che vi era stata una strage e che mi attendevano per cominciare i rilievi. È difficile spiegare quello che vidi. Notai dapprima gli sguardi attoniti e terrorizzati dei Carabinieri. Erano giovani, come me, e forse anche loro alla prima esperienza di un così tragico battesimo di sangue. All’ingresso della casa, su due piani, giaceva un ragazzo in un lago di sangue, la faccia asportata da un colpo di fucile. L’arma gli era accanto con il vivo di volata ancora in direzione del volto. Una scia di sangue saliva per le due scale: due infinite rampe di scale.
Il Capitano mi disse che sarebbe stato meglio fermarsi lì, perché nelle due stanze a secondo piano giacevano, trafitti dalle pallottole di fucile, i quattro corpi dei restanti componenti di quella famiglia. Tra questi una bambina di due anni. Mi feci forza e salii.
Seguii quella scia fino ai luoghi in cui conduceva e vidi, oltre la morte, l’insondabile parte ombrosa di noi stessi. Capirete tra breve perché io l’abbia chiamata così… Posso ricordare ogni istante di quella ascesa, malgrado siano trascorsi più di trent’anni. Perché – ad ogni scalino inondato di sangue che superavo – dentro la mia anima faceva eco solo e soltanto una frase ripetuta senza fine: “Spesso il male di vivere ho incontrato…”. Non so in quale parte della mente fosse rimasta tutti quegli anni, ma la frase poetica era riemersa e adesso mi accompagnava in quel doloroso percorso.
Bastò poca investigazione per capire che la strage era stata consumata dal ragazzo trovato all’ingresso. Era un ragazzo normale, come tanti altri, uno studente che mai aveva manifestato un disequilibrio mentale. Però, quella notte, tornato dalla discoteca, aveva imbracciato il fucile e li aveva sterminati. Aveva poi rivolto l’arma contro se stesso ed aveva sparato. Il colpo, però, gli aveva ablato solo una parte del volto e per questo aveva ridisceso le scale lasciando quella scia. Sembrava incredibile, ma ridotto in quello stato aveva avuto la forza di ricaricare il fucile e spararsi il secondo colpo.
Nessuno pose spiegazione di quel gesto assolutamente folle compiuto da un uomo in apparenza sano. E, invece, era semplice capire che il male esiste e ha tanti modi per manifestarsi. Il male è l’insondabile parte ombrosa che vive in noi e che ogni giorno dobbiamo contrastare per fare prevalere la vita.
Ascolto il notiziario che riferisce della strage di Licata e la mia mente vola veloce a quella notte in un luogo non lontano dalla Valle dei Templi. Strano, risento il verso di Montale: “Spesso il male di vivere ho incontrato”. La poesia è venuta a salvarmi ancora una volta…